EDIZIONI PARVA
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Sopra: Beato l'uomo che ama la Torah
dipinto di D. Lifschitz.
Estratto de:
L'IMMONDIZIA AMA DIO
Daniel Lifschitz
Storia di un ebreo cattolico
Il Battesimo – don Dossetti – Monteveglio – Gerusalemme
Spello – Cammino Neocatecumenale – Matrimonio –
Itineranza in Grecia – Turchia – Siria - Egitto – Israele -
Svizzera – USA - Rottura con Kiko – Morte di Davide
Il Battesimo
Sogni battesimali
Durante il periodo “angelico” che precedette il Battesimo, ebbi quattro sogni significativi e indimenticabili.
1. Stavo attraversando una specie di deserto, tenendo in una mano la Bibbia, nell’altra un mazzo di chiavi. Arrivai ad un largo ruscello, le cui acque melmose scorrevano veloci, torbide e agitate. Una minaccia invisibile alle mie spalle mi obbligava di attraversare le acque. Ma non ne avevo il coraggio. Presi la rincorsa per saltarlo, ma atterrando sull’altra riva, Bibbia e chiavi caddero nelle acque. Istintivamente acchiappai le chiavi, ma persi definitivamente la Bibbia, che venne portata via, trascinata dalle acque. Dalla nuova riva cercai di riprenderla, ma era impossibile, era irraggiungibile; la vidi allontanarsi in mezzo alle acque. L’avevo persa. Mi trovavo sull’altra riva, ma immensamente triste e solo.
(….)
Padre Pio
(….)
Arrivati a San Giovanni Rotondo, trovammo una lunga fila di penitenti; ci si doveva iscrivere nel turno per le confessioni. Quando toccò a me, non sapevo cosa dire. Il segretario, un frate Cappuccino cominciò ad impazientirsi: “Perché non ti iscrivi?”
“Non posso, sono ebreo”.
Si alzò, gesticolando e gridando: “Vai via, questo non è un posto per ebrei e scismatici!”. Io non mi muovevo. Poi, fissandomi, scorse il rosario che lo salutava sotto la maglietta. Calmandosi chiese: “Se sei ebreo, perché porti il rosario?”.
“Non capisce che sto cercando?”.
“Presentati domani mattina, prima delle nove, in sagrestia; Padre Pio passerà per andare in chiesa!”.
All’indomani eravamo in diversi ad aspettarlo. Mi avvicinai per baciargli una mano con la stigmata fasciata. Per lunghi secondi mi guardò fissamente. Mi sentivo spiritualmente radiografato. Ebbi l’impressione di essere conosciuto fin nel più profondo. Borbottò alcune parole benevole e poi mi chiese: “Cosa vuoi?”.
Spiegai la faccenda della data del Battesimo. Mi mollò un forte pugno nello sterno e ordinò: “Fallo subito!”(….)
Il grande giorno
Vissi quel giorno in modo molto confuso, combattuto e tormentato. Il vescovo di Cortona, Mons. Franceschini, desiderava conferire al Battesimo di un ebreo una certa solennità e ufficialità che mi dava molto fastidio.
Fui battezzato e cresimato nel Battistero dell’attuale Museo diocesano, sotto la meravigliosa Annunciazione del Beato Fra Angelico (….)
Da Solemnes a Monteveglio
Una tentazione provvidenziale
(….) Il sette ottobre, tre settimane dopo il Battesimo, stipai libri, colori, cavalletto, e due valigie nella mia 500 Giardiniera, e partii per la Francia, in direzione Solemnes.
Passando per Bologna, si scatenò in me un vero “pan-demonio”. La pace di cui godevo da quattro mesi mi abbandonò, mentre mi attaccarono tutti i poteri malvagi ai quali avevo prestato servizio per tanti anni. Fu durante questa lotta che mi ricordai della lettera di Suor Agnese. L’unica via d’uscita era scappare. Fuggii in direzione di Monteveglio. (….)
Andai a bussare. Mi aprì un anziano prete, don Antonio. Non mi chiese un documento, né chi ero, né da dove venivo; mi assegnò semplicemente una cella. La sera stessa cenai in un atmosfera famigliare, con lui, don Efrem e un giovane monaco, Anastasio,
L’incontro con don Dossetti
La mattina presto si celebrò l’Eucaristia e ricevetti, per la prima volta, il Sangue di Cristo.
Durante la notte il fondatore della comunità, don Dossetti, era tornato da Roma, dove assisteva come esperto il Cardinale Lercaro durante il Concilio Vaticano II.
Intuii subito che continuare il viaggio verso Solemnes non aveva più alcun senso, e gli chiesi di poter mi fermare a Monteveglio. Il Signore mi aveva guidato miracolosamente verso la Comunità che nel mio cuore cercavo. Solo più tardi venni a sapere che don Dossetti era una personalità importante sul piano politico ed ecclesiale (….).
La comunità di Monteveglio
(….) Ogni fine settimana veniva da Roma, la famiglia Gennarini con i loro tre figli e l’inevitabile cane, un cocker che mordeva perfino il proprio padrone. Mimmo, il padre, era il direttore del TG 1; Stefano, il primogenito, studiava teologia a Tubinga e si preparava ad entrare come monaco nella Comunità. Giuseppe allora faceva parte dell’estrema sinistra e non metteva piede in Chiesa.
Quando Kiko e Carmen aprirono il Cammino Neocatecumenale a Roma, nella loro parrocchia, diradarono le visite, poi non vennero più. Li ho ritrovati tutti, anni dopo, nel Cammino.
Negli anni di Monteveglio ho conosciuto Giorgio La Pira, don Divo Barsotti, Padre Lanne, P. Benedetto Calati Raniero La Valle, la coppia Marcella e Pino Glisenti e tanti altri.
(….) Mi ricordo la visita dell’allora Vescovo ausiliare di Bologna, mons. Cè, poi Patriarca di Venezia. Si firmò nel mio libro di visite con le parole: Beata urbs Jerusalem, caelestis pacis visio”(….).
fu la sapienza a guidare don Giuseppe nella direzione spirituale, forse anche aldilà di una sua stessa comprensione.
Inoltre non ero certo un “cliente” facile.
(….) Avrei voluto obbedire ma, per la mia storia passata e il mio orgoglio, ne ero assolutamente incapace. Nella Comunità si praticava l’obbedienza, ma mai mi venne chiesta quella mortificante, per la quale uno deve morire a se stesso. Forse don Giuseppe non me la chiese, sapendo che non ero in grado di osservarla. (….)
Il suo viaggio in India, Siria, Iraq e Israele avvenne nel 1967, poco dopo la Guerra dei Sei Giorni. Mi ero scontrato con lui sulla lettura di questo conflitto. Lui - due anni dopo gli dovetti dare ragione - capiva che l’occupazione dei territori da parte di Israele avrebbe solo complicato il conflitto. Io invece, agli sgoccioli della mia simpatia verso il sionismo politico, ebbi un ultimo rigurgito
Quando don Dossetti partì per il lungo viaggio in Oriente, fermandosi al suo ritorno in Israele e Palestina chiamò a Gerusalemme per raggiungerlo Atos, un fratello di Monteveglio che aveva già fatto i voti e viveva da molti anni nella Comunità.
Il fatto di non essere stato chiamato a Gerusalemme, io, l’unico ebreo, ma anche l’ultimo arrivato, scatenò in me una doppia ribellione.
Decisi di lasciare Monteveglio e di andare da solo a Gerusalemme. Volevo fondare una mia comunità.
Sul monte degli Ulivi affittai da un palestinese musulmano un appartamento dal quale si contemplava tutta la Gerusalemme vecchia, quel panorama che si vede sui lunghi poster in tante parrocchie.
(….) La mia esperienza di “fondatore” durò pochi mesi e fallì miseramente. Una vera vocazione non nasce mai dalla disobbedienza. Se la disobbedienza è necessaria – e qualche volta lo è – la vocazione, se è autentica, l’ha precede sempre.
“Pentimento”
Dopo sei mesi tornai a Monteveglio, chiesi perdono e fui riammesso nella Comunità. Durante i cinque anni che vissi con la Comunità non ho mai più visto don Giuseppe arrabbiato; davanti a noi nascondeva i suoi sentimenti, le sofferenze e le preoccupazioni che certamente aveva. Non tagliava mai con nessuno, e con me e tanti altri avrebbe avuto ragioni umane - non evangeliche - a bizzeffe per farlo. Era questo un aspetto del suo essere cristiano, che cercava di trasmetterci.
Aveva una nobiltà di comportamento e una sua fierezza; si avvertiva in lui una certa superiorità, ma mai superbia. Questo creava - almeno io lo vissi così - una po’ di distanza, l’impossibilità di una contatto veramente intimo. Ad eccezione di don Efrem, tutti gli davamo del lei. Questo rapporto, leggermente reverenziale, sparì dopo la mia uscita dalla Comunità. Negli ultimi anni, – lo visitavo ogni anno almeno due volte – nacque una vera amicizia tra un anziano e un giovane.
Ho incontrato lungo la mia storia post battesimale tanti presbiteri. Ma Don Giuseppe è l’unica persona che sento e che mi è stato veramente “padre”. (….)
Una sola volta lo vidi piangere davanti a tutti noi, sorelle e fratelli: quando tornò, una sera tardi, dal Cardinale Lercaro con la nomina definitiva a Vicario Generale della Diocesi di Bologna. Vi aveva resistito per mesi. Per obbedienza dovette tradire la sua chiamata al monachesimo(….).
C’è chi pensa che se don Dossetti non si fosse ritirato dalla politica sarebbe diventato Presidente della Repubblica o Presidente del Consiglio al posto di Fanfani e Moro. Ambedue facevano parte della corrente nella Democrazia Cristiana capeggiata da lui.
Presidente della Repubblica, forse; Presidente del Consiglio, mai! O, al massimo, per un mese! Estremamente retto, credeva troppo facilmente alla rettitudine, pur se minima, degli altri. I nostri cari politici gli avrebbero fatto le scarpe in quattro e quattr’otto. Che l’avrebbero distrutto politicamente lo deduco da due episodi dei quali sono stato testimone: (….)
Patmos IV
(….) Andammo a trovare l’Anziano Amphilochios nel monastero Evangelismos da lui fondato. Era un uomo aperto, amico del patriarca Atenagoras e favorevole all’ecumenismo; per questo, e per la sua pietà, era mal visto dagli altri monaci di Patmos e dall’ortodossia greca.
Ci accolse con grande bontà, trattenendoci a pranzo. Quasi piangeva, perché non gli era concesso darci l’Eucaristia. “Non posso, non posso - disse - non me lo permettono”. Mi profetizzò, e Atos ne è testimone: “Tu, Danil, un giorno, andrai a predicare il Vangelo sulle orme di san Paolo”.
Una mattina venni chiamato dal monaco Omiletios al grande monastero, quello di san Christodoulos, che sovrastava la mia casa. Convinto che facevo parte di una congiura ebraica per strappare Patmos alla Chiesa ortodossa, una menzogna divulgata da qualche giornale dell’ortodossia più retrograda, era stato sempre il mio accanito nemico. Ora aveva un tumore e stava per morire. Pur sapendo che ero cattolico e non ortodosso, cosa che per molti ortodossi greci è peggio di essere ebreo, fece, prima di morire un gesto ecumenico: mi voleva vedere per chiedermi perdono; ci riconciliammo, abbracciandoci. (….)
Don Divo Barsotti
(….) A Monteveglio conobbi nel 1967 don Divo Barsotti. Era, a quel tempo, la guida spirituale di don Giuseppe.
e mi invitò a Settignano, dove abitava in una villa, “Casa San Sergio”, trasformata in un piccolo monastero. Durante la mostra a Firenze, e anche dopo, andai diverse volte a trovarlo, e fui sempre accolto fraternamente; una volta andai anche con mia madre.
L’inizio di questa amicizia si ruppe però bruscamente in occasione di una riunione domenicale della sua Comunità a Firenze, alla quale ero stato invitato. Eccetto un altro giovane e me, vi parteciparono solo donne. Non mi ricordo assolutamente l’argomento che don Divo trattava quella volta e quali delle sue parole mi spinsero a intervenire e a contraddirlo. Se l’avessi conosciuto meglio, forse, ma solo forse, mi sarei trattenuto. “Taci! – gridò – non capisci niente!. Vattene!”. Forse non mi voleva cacciare, ma in effetti mi cacciò. (….)
Don Divo aveva un temperamento così. Proprio in quel periodo lo avevano abbandonato tutti i giovani con i quali sperava di fondare una comunità monastica. Era rimasto solo. Gli pareva che Dio non approvasse i suoi progetti di fondatore.
In una prefazione ad un mio libro sui Salmi, scrive: “È difficile per me ricordare l’anno preciso in cui conobbi Daniel Lifschitz. Era un chassid”…. Io, invece, me lo ricordo bene; era nel 1968.
Ci rincontrammo nel 1976 a Baida, nella casa di Esercizi Spirituali della Diocesi di Palermo. Lui predicava in una sala alla sua Comunità; io, in un’altra, ad una Comunità Neocatecumenale di Trapani.
Nel 1996 gli chiesi di farmi da padre spirituale. Di questo periodo scriverò più avanti.
Giorgio La Pira
(….) Qualche mese dopo, tornando da una mostra alla libreria “Paesi nuovi” di Marcella Glisenti a Roma, lo incontrai sul treno. Era allora deputato alla Camera e viaggiava, quindi, in prima classe. Mi invitò a entrare nel suo scompartimento e facemmo il tragitto fino a Firenze insieme; dalla stazione lo accompagnai a piedi a casa sua. Mi sembrava un po’ vanitoso. Lungo la camminata credeva che tutta la città lo doveva conoscere e ammirare. Ci fermammo in un bar dove il
giovane barista non gli fece caso. Non resistette a questa “invisibilità” e chiese: “Non sai con chi parli?”. Il ragazzo, che ovviamente non lo sapeva - non era più sindaco dal 1964 - gli rispose picche: “Che me ne frega!”. La Pira rimase male, aveva bisogno di audience.. (….)
Un anno in Israele
Al Santo sepolcr (….) Un giorno un gruppo rumoroso e maleducato di turisti italiani e spagnoli aspettava davanti al Santo Sepolcro. Mi rendevo conto che non potevo rimanere dentro a pregare. La cappella è molto stretta e piccola; dovevo smammare. Uscendo, scorsi una ventina di scalmanati, maschi e femmine in shorts, molti con zaini sulle spalle, altri con chitarre. Parlavano ad alta voce, senza far caso al santo luogo e a chi pregava, in italiano e spagnolo. Mentre mi scandalizzavo, riconobbi il mio amico Stefano Gennarini, con il quale avevo vissuto a Monteveglio. C’èra anche Giuseppe, suo fratello. Non avendolo mai visto in chiesa, mi chiedevo che facesse qui quel simpatizzante di “Lotta continua”. Stava forse per introdurre un candelotto di dinamite nel Santo Sepolcro?
Mi presentarono a Kiko Arguello, un giovane barbuto e allora mal vestito. Si trattava dei primi itineranti del Cammino Neocatecumenale. Stefano mi invitò ad un loro incontro presso i Passionisti di Betania, dove alloggiavano. Ero troppo scandalizzato dall’atteggiamento irriverente di questa ciurma di pirati per accettare, e decisi di non andare. Non potevo immaginarmi che, tre anni dopo, sarei stato uno di quegli “scostumati”.
Padre Romano Bottegal
(….) A volte andavo per una giornata di ritiro dalle suore Benedettine, sulla strada per Betlemme. Lì incontrai un eremita Trappista, il Padre Romano Bottegal; celebrava l’Eucaristia per le suore nel rito Melchita. Era invaso di una gioia infinita. Aveva una certa somiglianza con le icone di san Serafino di Sarov. Camminava con passo felpato, come un gatto, quasi senza toccare la terra. Aveva qualcosa in comune con Madre Teresa: il suo io quasi non esisteva più. Avvertivo che era un uomo di Dio e mi confessai alcune volte da lui. Mi aiutò in uno dei miei numerosi momenti di depressione e tentazione. Mi profetizzò anche che avrei sofferto molto lungo tutta la mia vita. Questo è accaduto, ma credo che le mie sofferenze si bilanciano con quelle che ho fatto subire ad altri.
La cosa meravigliosa dell’incontro con Cristo è che le proprie sofferenze vengono assorbite e trasformate nella gioia che Lui trasmette. Da alcuni anni, pur avendo molte sofferenze fisiche e morali, soffro pochissimo, quel poco che serve per la mia correzione
Un pellegrinaggio sulle orme di Gesù (….) Un viaggio a Hebron/ Investo un bambino/ Una famiglia ebrea cristiana/ Il cugino dalla Polonia/ I piccoli orfani/ La parrocchia St Isaia/ (….)
Partenza (….)
Mentre i fratelli partirono con il treno e mi precedettero a Haifa sulla “Helleana”, una bella nave a crociera, io seguii con la mia macchinetta. Ne avevo fatto un furgone. Con tutto quello che accatastai sul portapacchi, era quasi più alta che lunga. Quando arrivai al porto, gli altri si erano già imbarcati. Mancava solo un’ora alla partenza. Mentre mi avviavo con il “furgone” verso l’imbarco, mi fermò la polizia. Era chiaro che mi aspettavano. Per sei ore mi smontarono la macchina, guardando in ogni tubo, nelle ruote, nel motore, sotto i sedili, nelle fodere ecc (….).
Dopo sei ore di inutile perquisizione si arresero, naturalmente senza scuse. Mi potei imbarcare, e l’“Helleana” partì per il suo penultimo viaggio.
Helen
(….) Lasciando Monteveglio, la Comunità e la direzione spirituale di don Giuseppe, smarrii completamente la bussola; non sapevo dove andare. Avevo ormai 34 anni e mi sembrava aver perso per sempre la grazia del Battesimo.
Cominciai a fantasticare, a fare progetti, e mi decisi di invitare Helen a Monteveglio. Prima rispose con prudenza; poi, dopo due mesi – l’avevo già dimenticata – mi arrivò un telegramma: annunciava il suo arrivo a Lussemburgo tra tre giorni, con un aereo che proveniva da New York. (….)
Eric (….)
Spello
A metà novembre del ‘71, dopo una sosta da don Giuseppe, che disapprovava l’amicizia con Eric, mi misi in viaggio verso Sud. Avvenne qualcosa di simile a quando, nel 1966, fui condotto “su ali di aquila” da Cortona a Monteveglio.
Mi fermai ad Assisi, dove un francescano mi parlò di Madre Speranza. Era una veggente, considerata da molti una santa. Mi misi in viaggio per Colle Valenza dove la Madre mi ricevette subito. Disse: “Vai tranquillo, troverai un luogo dove fermarti”. Non passarono nemmeno tre ore, che l’avevo trovato(….).
Arrivai verso le sette di sera. Diverse persone stavano cenando attorno ad una grande mensa. Fui accolto con molta cordialità. Si trattava della Comunità di Carlo Carretto, dei “piccoli fratelli di Gesù”. Carlo mi invitò a fermarmi e rimasi lì sei mesi Il giorno seguente affittai nel paese due stanze per dipingere.
Carlo era, come si sa, molto liberale e aperto. Accorgendosi della mia dimestichezza con la Scrittura, mi invitò a spezzare la Parola durante l’Eucaristia. Questo poteva essere un bene per gli altri, ma non lo era per me: mi montava la testa.
La mia conoscenza della Bibbia era una cosa, la mia vera vita tutt’altro. Tra ortodossia e orto-prassi c’era un abisso. (….)
Carpi
Mi telefonò poi da Carpi, insistendo: “ho trovato per te un alloggio presso due pie sorelle!” Questo invito coincideva con una delle mie solite depressioni, e lo accettai ben volentieri. Così traslocai per l’ennesima volta. Di nuovo in Emilia, a Carpi. (….)
(….) Verso la fine di questa vacanza caddi di nuovo, all’improvviso, in una buco nero: un altro ciclo bipolare. Dopo due settimane mi aspettava un impegno che avevo preso con Osvaldo Piacentini per il convegno annuale degli aspiranti italiani al diaconato.
Mi ero preparato meticolosamente e, scrutando la Scrittura, avevo scoperto dei nessi meravigliosi tra la festa ebraica di Sukkoth e la Trasfigurazione di Gesù. Ero pronto per un intervento che gettava una luce nuova su questa festa troppo emarginata nella Chiesa. Ma all’improvviso mi sembrò impossibile poter svolgere qualsiasi discorso; non ricordavo più niente. Sapevo ciò che dovevo dire, ma tutto era diventato nebuloso. Ero terrorizzato della brutta figura che avrei fatto. All’ultimo momento fui costretto a disdire l’incontro.(….)
Incontro col cammino neocatechumenale.
A Natale passai alcuni giorni nella comunità di Monteveglio. In quel occasione incontrai di nuovo Stefano Gennarini, che mi incoraggiò a seguire la catechesi del Cammino Neocatecumenale. Avevo per cinque anni rifiutato di aderirvi. Ero stato invitato diverse volte a convivenze in Israele e a Campo Dolcino, ma avevo sempre preferito non andarci. Incoraggiavo, invece, altre persone, piene di problemi come me, a frequentare le catechesi. Ma ormai avevo esaurito tutte le mie cartucce; correvo da un’esperienza ecclesiale all’altra, senza combinare niente, almeno apparentemente, e mi aprii all’invito di Stefano. Le promesse battesimali – parlo di quelle fattami dalla Chiesa – mi sembravano una méta irraggiungibile. Avevo sciupato tutto (….).
Fu così che decisi di fare fagotto un’altra volta, di riempire di nuovo la macchina con le mie cose e - dopo aver salutato gli amici di Carpi - di scendere a Napoli, dove mi imbarcai per la Sicilia.
Il viaggio verso Palermo
(….) Al mio arrivo don Gilberto mi presentò al parroco, don Lillo Tubolino, e al resto dell’equipe itinerante, Pino e Pina Cottone e Maria, una ragazza siciliana. Mi resi subito conto che le redini dell’équipe erano in mano alla coppia e soprattutto in quelle di Pina, una donna corpulenta, forte e decisa. Durante il pranzo avvertii anche una continua tensione tra Pina e don Gilberto. (….) Bisticciavano per ogni cosa. Pensavo, dimenticando i miei propri peccati: “se questi
mi devono evangelizzare e si attaccano tra di loro come cani e gatti, che cosa potranno insegnarmi?”. (….)
I catechisti, dicendoci che il Cammino sarebbe durato 7 anni, non ci avevano detto la verità. Forse non volevano spaventarci o, chi sa, non sapevano neanche loro stessi quanto sarebbe durato.
Angela
(….) Suonammo alla porta della famiglia Bonsangue. Mi aprì Zaìtu, la madre: una donna alta, con il portamento fiero dei tigrini.
Nel centro del salotto sedeva Angela, incorniciata dai suoi due fratelli,
Salvatore e Dino. Mi trovavo di fronte ad una bellissima donna(….).
(….) Quel giorno decisi di entrare in ciò di cui avevo terrore: nel matrimonio. La forza per questa decisione mi venne unicamente dalla Parola ascoltata. La domenica sera, appena terminata la convivenza, andai a casa di Angela e le chiesi se voleva sposarmi. Ci sposammo a luglio; prima, civilmente, a Berna, e il 31 nella nostra parrocchia
Il giorno delle nozze non ero sereno. Anzi, ero furioso. Non lo facevo vedere, almeno spero, ma dentro di me mi dibattevo come un uomo ferito, cosciente che veniva amputato, senza anestesia, delle sue gambe e non sarebbe più potuto andare dove gli pare e piace.
Itineranti
1974 Convivenza a Ostia e Bocca di Magra.
(….) Sul piazzale della stazione Angela deve andare in bagno. È vestita con un bel sari rosso. Noi l’aspettiamo. Ritorna piangendo: in Germania i gabinetti pubblici sono a pagamento. Un povero, forse un turco, ha osservato la scena e le mette in mano un marco. Ora sappiamo tutti e quattro che Jesus, quello vero, è con noi.(….)
Andiamo alla missione italiana dei Padri Scalabriniani. Ma il superiore, anche se don Antonio si presenta in clergyman, non crede che siamo cattolici in missione, e ci caccia via indicandoci l’ospizio cittadino per i barboni. Per Angela troviamo un convento di suore; l’accolgono per la notte. Noi maschi seguiamo il consiglio del religioso e bussiamo al ricovero.
Per prima cosa dobbiamo passare per una doccia disinfettante, poi ci danno gli orari e a ciascuno una branda in un camerone di sessanta letti. Siamo con i più poveri della città. Lo scalabriniano, incuriosito, viene a vedere se siamo veramente poveri. Osserva, ci vede e se ne va, senza rivolgerci una parola. Alle cinque del mattino un impiegato in uniforme urla: “Aufstehen!”(….)
Riprendiamo le nostre visite alle parrocchie, percorrendo la città. Finalmente faccio un po’ di footing. Don Antonio, ogni volta che un parroco ci riceve, mi fa tremare. Mentre aspettiamo nell’ufficio parrocchiale, non riesce a starsene fermo. Tocca gli oggetti, prende in mano il telefono, lo esamina, annusa i fiori, sposta le piante, apre gli scaffali, anche l’agenda del prete; io supplico il mio angelo custode, quello di don Antonio e del parroco di fare in modo che nessuno entri in questo momento. Succede un miracolo: nessuno entra; sono stato esaudito!
Turchia (….)
Per poter fare le nostre celebrazioni, la Liturgia delle ore e l’Eucaristia, dovevamo portare quindi tutto l’occorrente nascosto in valigie e affittare una stanza in più, trasformandola in cappella. Per i neocatecumeni non si tratta di poche cose: la Bibbia con la fodera di Kiko, l’icona della Madonna di Kiko, la Croce a stile in stile di Kiko, il Cero pasquale con un motivo di Kiko, la Coppa e la patena progettati da Kiko, il libro dei canti di Kiko, il copri leggio ideato da Kiko, tappeti, chitarra, tamburello e paramenti non ancora progettati da Kiko.
Itineranza in Grecia Syra e Tinos
(….) un giorno rimanemmo completamente a secco. Dovevamo assolutamente ritornare a Sira, dove ci aspettavano catechesi, moglie e bambine. Conoscendo la generosità di p. Rocco, che era felicissimo della catechesi e sarebbe stato subito disposto a darci il necessario, suggerii a John di chiedergli un aiuto per l’acquisto dei biglietti per la nave. Non ne volle sapere. Infatti, una consegna importante di Kiko agli itineranti è di non chiedere mai soldi a chicchessia o per qualsiasi motivo.
Passeggiavamo sul lungomare, non sapendo cosa fare. La nave stava già entrando nel porto, da dove sarebbe ripartita per Syra dopo dieci minuti, quando, ad un tratto, il proprietario dell’agenzia di viaggio si avvicinò e ci mise in mano due biglietti gratis con le parole: “Voi siete quelli che predicano il Vangelo? Permettete che vi faccia un omaggio!”. Così il Signore mi svergognò, insegnandomi a fidarmi di Lui. Gam zu le tovah!.
(….) A Syra, invece, nacque una piccola Comunità di 12 fratelli, per la gioia del parroco p.Sebastiano e per il gran dispiacere del vescovo. Mons. Papamanolis, vescovo di Syra e Creta, un Cappuccino rubicondo. Mentre prima si era mostrato entusiasta, all’improvviso volle cambiare diverse caratteristiche della Comunità: un solo raduno la settimana invece di due, nessuna Eucaristia con il Sangue di Cristo ecc. Quando comunicò tutte le sue perplessità a Sebastiano, stavamo già per lasciare Syra per trasferirci in Turchia. Gli chiedemmo un incontro urgente, ma non aveva tempo: doveva partire all’indomani per Creta, che faceva parte della sua diocesi. Così ci toccò rinviare il nostro viaggio e aspettarlo per cinque giorni nella bella villa Liberty. Gam zu le tovah! Furono stupende vacanze.
Il vescovo, invece, navigando verso Creta se la vide brutta. Uno di quei terribili temporali invernali, come l’avevo vissuto anch’io dal Pireo a Patmos, si levò e impedì per due giorni a Sua Eccellenza di attraccare a Creta. Papamanolis tornò, dopo quattro giorni, malconcio e distrutto dal mal di mare. Appena fu di nuovo in piedi, ci ricevette, non più rubicondo, ma pallido come un lenzuolo, lavato dalle onde. Insieme a Sebastiano riuscimmo, forse grazie al suo mal di mare, a salvare la Comunità dalle sue intromissioni.
Istanbul
– avrebbe voluto accoglierli, dall’altra temeva la reazione dei suoi confratelli francescani. Aveva perso l’eterno sorriso e si contorceva, finalmente con il viso tirato, sulla sua sedia, come se fosse torturato da due magneti opposti: fare del bene e accogliere, oppure seguire l’esempio di p. Marovich, obbedire ai suoi frati e cacciare.
John, che era il capo équipe, di per sé una persona mite e timida, non mollava: “Allora, padre Luigi, sei disposto ad accogliere questi fratelli nella tua parrocchia?”.
Nessuna risposta.
“Padre Luigi, abbiamo bisogno di una tua risposta”.
Si sentì un timido: “Non posso decidere”.
E John ad insistere: “Padre Luigi, tu sei il parroco di Sant’Antonio, questi fratelli hanno bisogno di un pastore. Devi a loro e a noi una tua risposta”.
Si udì un gemito lacrimoso: “No, non li posso accogliere”.
A questo punto gli battemmo non le mani, ma i sandali o, siccome era inverno, le scarpe, gridando: “La responsabilità per il sangue di questi fratelli cada su di te!”.
P. Luigi, che forse aveva individuato in me il punto più debole del panzer neocatecumenale, mi correva dietro supplicandomi: “Daniele, non farlo, ti prego, non farlo!” Ma ormai il gesto evangelico, a mio avviso in quest’occasione assolutamente opportuno, era compiuto. Portò due frutti inaspettati: il frate Cappuccino, padre Bernardino, presente a questa “battitura”, venne dopo la catechesi da noi e ci invitò a scendere subito ad Antakia a predicare nella sua parrocchia. Padre Luigi, invece, convinse poco a poco i suoi confratelli ad accettare la catechesi, e la iniziò due anni dopo nella sua parrocchia dove, per quanto so, il Cammino si sta sviluppando rigogliosamente.
Antiochia – Antakia (….)
Smirne - Izmir
(….) Visto che padre Elia si era dichiarato disposto ad aprire le porte della sua mini parrocchia ad Izmir, si decise che una seconda visita all’antica chiesa di Smirne era opportuna. In avanguardia andammo John e io.
Quando bussammo alla sua porta, p. Elia esclamò: “”Mon Dieu! Siete di nuovo qua! Non vi aspettavo così presto, anzi, non vi aspettavo più!”. Da uomo d’onore qual’era ci ospitò. Il vecchio vescovo americano aveva dato le dimissioni e il nuovo, meno male, non era stato ancora nominato. Ad interim la diocesi veniva amministrata dal Cancelliere, p. Michele, anche lui un frate Cappuccino. P. Elia lo convinse a convocare una riunione di tutto il clero, suore incluse, quattro gatti e cinque gatte, che dovevano decidere della nostra sorte.
La parola fu data per prima a noi. Sottolineammo la necessità di un catecumenato per le persone lontane dalla chiesa, poco
praticanti o giovani. Interrompendoci si alzò, per nostra fortuna, il parroco domenicano. Era nostro acerrimo nemico e ci aveva cacciato con male parole in occasione della nostra prima visita a Izmir. Fremendo di rabbia ci tacciò di sfaccendati che, con il pretesto di servire la Chiesa, facevano a sbafo “turismo ecclesiale”. Se avesse saggiamente taciuto, avremmo forse dovuto fare fagotto. Ma una tale arroganza, suscitò la reazione opposta. Gli altri parroci, tutti Francescani, di fronte a quel prepotente Dominicano, che nella sua parrocchia regnava su un gregge di mille pecore, mentre, si dovevano dividere tra di loro trecento pecorelle, insorsero come un sol uomo. Appena il Domenicano si sedette, si alzarono i Francescani e chiesero all’unisono la catechesi. Già la settimana seguente iniziammo la predicazione in due parrocchie, San Policarpo da padre Elia e Sant’ Elena da p. Domenico. (….)
Padre Elia chiedeva continuamente come preparavamo le nostre catechesi. Sospettava che ci doveva essere, sotto sotto, un testo guida, ma, vedendoci sempre parlare a braccio, non si capacitava da dove prendevamo tutta questa “sapienza” e unità d’intenti. Noi un testo l’avevamo, ed erano le catechesi di Kiko e Carmen, rilegate in una dispensa. Ci era stato raccomandato vivamente di non mostrarle mai a nessuno.
Una sera, mentre père Elie faceva visite ai suoi numerosi parrocchiani, preparavamo la catechesi dell’indomani nel suo salotto e, terminata la lettura – la conoscevamo già tutti a memoria e per me era diventata una gran noia – nascosi il mio mamotreto sotto il cuscino di un divano. La mattina, a colazione, père Elie ci venne incontro tutto pimpante con un ghigno in bocca e in mano il “vangelo secondo Kiko e Carmen”: “Ecco, da dove tirate fuori la vostra parlantina! Ora ho capito chi siete: siete tutti dei pappagalli!”. Non aveva tutti i torti. Bisogna dire che questo episodio non allontanò da noi il caro père Elie. L’anno seguente chiese di tornare a Parigi, lì entrò nel Cammino e lo ritrovai in équipe con me quando, nel 1982, fummo inviati in Etiopia.
Il locale che avevamo affittato sul lungomare vicino ad Izmir si rivelò poi – ce ne accorgemmo però solo durante la notte, svegliati da certi “rumorini” – ad essere, oltre che albergo, un efficiente bordello. Ma ciò non impedì al Signore di benedire la nostra convivenza. Lui, più di noi, era abituato ad accogliere prostitute in stato di “convivenza”.
Tinos-Syra
(….) Il più bel ricordo che ho della catechesi a Steni è la riconciliazione che avvenne tra Giuseppe, il sindaco del paese, e p.Nikos. Erano in lite da anni, credo per beghe politiche, e non si parlavano più. Durante la celebrazione penitenziale avvenne davanti a tutto il paese il miracolo. La Parola di Dio aveva toccato i loro cuori e, riconciliati, caddero l’uno nelle braccia dell’altro. Giuseppe fu poi eletto responsabile della Comunità e per due anni collaborarono insieme per il bene della parrocchia. Poi si ammalò di tumore. Sul letto di morte – lo ricordano tutti – chiamò i suoi ex-nemici, ne aveva molti, e chiese loro perdono.
Turchia II
(….) Nel frattempo era arrivato il nuovo Vescovo di Izmir, Mons. Kalogiras. L’incontro con lui fu drammatico. Non voleva saperne di Comunità. Secondo lui gettavamo scompiglio nella sua diocesi. Poco prima del nostro arrivo aveva vietato alle suore di continuare il Cammino. Decise, senza spiegare il perché, di chiudere anche la Comunità di p.Domenico. Che male poteva recare una Comunità di appena dieci persone ad un “grande” diocesi? Ovviamente il Vescovo, fedele a l Vangelo, temeva che un po’ di lievito fermentasse tutta la massa. Poco tempo prima Giovanni Paolo II era stato ad Efeso, e Mons. Kalogiras l’aveva salutato come “il dolce Cristo in terra”. Alla nostra obiezione che il “dolce Cristo in terra” conosceva il Cammino e l’apprezzava, seppe solo rispondere: “A Izmir il Papa sono io!”.
Visto che era irremovibile, gli mettemmo davanti le parole di Gesù: “Guai a chi scandalizza uno di questi piccoli che credono in me, è meglio per lui che gli si metta una macina d’asina al collo e venga gettato nel mare!”.
Mons. Kalojiras, che aveva fretta - l’indomani doveva partire per Roma - concluse l’udienza: “Citate pure il Vangelo quanto volete, la mia decisione è presa”. La sua sì, ma non quella di Dio. Arrivando a Roma, fu ospedalizzato d’urgenza al Forlanini per un edema ai polmoni. Si dovette dimettere da vescovo della Diocesi e non tornò mai più a Izmir.
Siria – Giordania - Siria
L’estate precedente avevamo partecipato ad una convivenza di itineranti in Israele e Angela, con la nostalgia dei momenti stupendi vissuti allora in Terra Santa, propose – era un’idea folle – invece di tornare attraverso la Turchia, di raggiungere l’Italia attraverso la Siria, la Giordania e Israele, imbarcandoci ad Haifa.(….)
Chi conosce la situazione politica tra Siria e Israele capirà la follia di quest’impresa. Io, un ebreo vissuto per anni in Israele, con il passaporto pieno di visti israeliani, e Angela, anche lei con un visto israeliano, rischiavamo a dir poco l’arresto. La proposta era talmente pazza che l’accettammo, dandole anche una giustificazione valida: sarebbe stato l’occasione per visitare le chiese della Siria.
E così partimmo in direzione di Aleppo. Alla frontiera siriana la polizia non si accorse di nulla e ci fece passare. Ad Aleppo ci fermammo in un piccolo albergo, intenzionati a visitare i vari vescovi della città.
La mattina, mentre pregavamo, come al solito, le Lodi, i miei fratelli intonarono a squarciagola l’inno del Benedictus: “Benedetto il Signore, Dio d’Israele”. Feci segno di abbassare il volume della voce, e mi meritai l’epiteto di codardo, fifone ecc. Mia moglie, p. Severino e, naturalmente, anche i bambini non si rendevano conto del pericolo: pronunciare la parola “Israele” in Siria è assolutamente vietato. Avrebbero più in là avuto l’occasione di prendermi sul serio. Siccome non volevano ascoltarmi, la voce, l’alzavo io, sovrapponendo la parola “Italia” alla compromettente parola “Israele”.
Il Benedictus divenne così: “Benedetto il Signore, Dio dell’Italia”.
E il Magnificat: “Ha sollevato l’Italia suo servo”.
E il Nunc dimittsi: “Luce per illuminare le genti e gloria del tuo popolo italiano.(….)
(….) Dopo una piccola sosta - stava già per imbrunire - continuammo in direzione di Damasco. Era notte quando ci avvicinammo alla città, impressionati per i campi militari che in una fila interminabile si allineavano lungo la carreggiata. Sembrava un paese in guerra.
Ad un certo punto Davide, che aveva due anni, chiese di fare la pipì. Appena scorsi uno spazio non militarizzato, mi fermai per aiutare il bambino. Nello stesso istante venni accerchiato da una decina di soldati che mi intimarono di seguirli. Angela, dentro la macchina gridava: “Non andare con loro!”. Ma che cosa potevo fare contro dieci robusti soldati siriani? Non ero mica il giovane pastore David che uccise 300 filistei, tagliando loro il prepuzio e da buon amministratore contandoli alla presenza del malvagio Saul?. In più, questi siriani erano presumibilmente tutti circoncisi e non rimaneva niente da tagliare se non la testa. Una tale crudeltà, però mi ripugnava. Li seguii quindi verso la loro caserma, dove mi rinchiusero in una stanza, facendomi capire di aspettare il loro capo.
(….) Nel mio intimo però rimasi tranquillo. Cacciai queste fantasie e mi misi a pregare. Dopo un’ora circa arrivò il signor capitano, un uomo sulla quarantina. Parlava un inglese sdentato. Mentre studiava il mio passaporto, ascoltava il mio racconto, parzialmente veritiero: ero un turista svizzero, archeologo, interessato alla cultura antica della Siria. Mi ero fermato per i bisogni del mio figlioletto, non sospettando di trovarmi vicino ad un campo militare “off limits”. Rifletté un momento, poi, dopo aver sfogliato un’altra volta, pagina per pagina, il documento d’identità con “estrema” meticolosità, non trovando niente di sospetto, me lo restituì con tante scuse. Potevamo andare. Non si era accorto dei tre visti israeliani. In piena notte arrivammo a Damasco. Vi assicuro che l’indomani, durante il Benedictus, la parola “Israele” non venne neanche sussurrata.
Giordania
Ormai avevamo speso quasi tutti i nostri soldi, e quel poco che ci era rimasto non bastava per un albergo. Decidemmo di bussare alle porte della nostra chiesa, la parrocchia cattolica. Ci aprì il parroco, un certo Michel Sabah. Piuttosto seccato e scostante, ci disse che non poteva accoglierci e ci consigliò di andare a Zerka, dove c’erano due monasteri femminili che si occupavano dei profughi palestinesi. Forse lì ci avrebbero ospitati (….).
(….) Il giorno seguente salutammo le care suore, e partimmo in direzione della discesa verso il Giordano. Lì, al ponte Allenby, ci aspettava una brutta sorpresa. Gli israeliani ci lasciavano passare, sì, ma senza macchina. Ovviamente la mia Renault familiare, quasi nuova, faceva loro gola. Tenemmo un breve consiglio tra di noi e, per non perdere la macchina, decidemmo di affrontare un’altra volta il rischio di entrare in Siria. Era l’unica alternativa per poter tornare in Italia.
Siria II
(….) Arrivati al controllo della polizia, consegnai i passaporti di tutti quanti, mentre la famiglia, di cui ormai anche don Severino faceva parte – i piccoli lo chiamavano don Sederino – aspettava in macchina. Il mio passaporto pieno di visti israeliani passò un’altra volta, senza commenti, tra le mani del poliziotto e ricevette il timbro siriano. Il caro uomo si fermò invece sul passaporto di Angela, studiandolo attentamente. Poi, a bruciapelo mi mostrò il visto israeliano e gridò: “Che cosa è questo?”.
Mi tremavano le gambe, ma quelle, dal desco, non le poteva vedere. Risposi, con finta tranquillità: “Noi siamo cristiani e mia moglie, prima di sposarci, ha fatto un pellegrinaggio al Santo Sepolcro”. L’uomo rifletteva. Capivo che era incerto se andare dal suo superiore o lasciarci passare. Forse era cristiano, forse era pigro, forse una buona persona, forse un cretino; non lo saprò mai. Tirò fuori il suo bel timbro, stampò il passaporto, e ci fece passare.
Dopo tanti fatti vissuti di persona, sono convinto che gli annunciatori del Vangelo sono sotto una protezione divina particolare: Gesù vigila sulla loro missione.
Itineranza in Egitto e Israele
Cairo - Heliopolis
Il Cammino in Egitto era stato aperto un anno prima da un altra équipe, il cui responsabile era padre Romano, un ex salesiano. Quando arrivammo la prima sera alla catechesi, trovammo sul portone della chiesa un grande cartello “pubblicitario”: «Le Père Romano, avec son équipe, vous invite à la catechèse...».
Sembrava il manifesto di un famoso cantante, accompagnato dal suo complesso. Mancava solo la sua foto. Ma il suo vero “complesso” fummo io, Angela e i bambini.(….)
Israele
(….) non vi potete immaginare la puzza e la sporcizia che regnava. Per mia moglie, infermiera e igienista, era la Geenna; per me, solo il purgatorio; per i nostri figli un divertimento.
Finalmente si trovò per noi un rifugio presso una anziana maestra palestinese, Sophie, una donna scorbutica, ma fondamentalmente molto buona. Gestiva un asilo nido per bambini poveri e orfani. Ciò era l’ideale per i nostri figli. che si integrarono molto bene.
Un giorno Anna, la pittrice rumena, mi presentò ad un vecchio rabbi: voleva sfidarmi per un “vikùach”, una disputa. Il suo argomento principale era che Gesù, essendo un uomo, non poteva essere figlio di Dio, ma doveva essere nato da un normale rapporto tra un uomo e una donna, in quel caso Maria e qualcun altro.
Gli chiesi: “Adamo, da quale rapporto è nato?”.
Rispose: “Fu creato direttamente da Dio”.
Io ripresi: “E Dio, che ha creato Adamo da solo, non era forse libero di fare una nuova creazione, facendo concepire Gesù in Maria, attraverso lo Spirito Santo?”. Non rispose. Era un simpatico vecchietto, e non credo che sia stato lui a denunciarci al rabbinato ortodosso. Sta di fatto che da quel giorno, ogni qual volta uscivamo dal nostro alloggio presso la maestra Sofie, un ragazzo ortodosso, alto, con caftano, cappello e Payoth ci seguiva ovunque, ad una distanza di circa 100 metri. Doveva essere una spia, un po’ troppo facilmente riconoscibile del Ministero israeliano per gli affari religiosi, un centro di potere dei partiti ortodossi. Questo pedinamento continuò per un mese, fino alla nostra partenza per l’Italia.
Svizzera
(….)Mandandomi a “convertire” i miei concittadini, Kiko dimenticò forse che “nessun profeta è ben accetto in patria”.
La visita di Papa Giovanni Paolo II
(….) I mass media facevano di tutto per avvelenare la sua visita. Si sa che gli Svizzeri sono per natura poco espansivi, ma quando si tratta del Papa diventano all’improvviso espansivi. Partimmo, quindi, la domenica del suo arrivo, con il primo treno diretto a Sion, per essere pronti ad accoglierlo in prima fila con striscioni, chitarre, e bongo. Avevamo anche un megafono, perché eravamo in tutto... tredici.
Quando, dopo la Messa, il Papa si ritirò nella Casa del Vescovo per pranzare con l’episcopato svizzero, ci spostammo nel giardino sottostante, continuando imperterriti per ore con i nostri canti neocatecumenali, finche il segretario del Vescovo, uscendo sul balcone, ci ringraziò, chiedendoci di abbassare il tono, perché il Santo Padre era andato a riposare.
L’indomani i giornali del Vallese, cantone cattolico, uscirono con il titolo: “Trecento giovani entusiasti, con chitarre e tamburi, cantano la loro gioia e il loro amore per il Papa.”Se da 13 siamo diventati 300, perché non credere che gli ebrei che uscirono dall’Egitto fossero 600.000 uomini ben armati, senza contare donne, bambini …? (….)
Etiopia
Kassuba
(….) E’ un piccolo paese fuori dal mondo, in una zona paludosa e malarica. Fare catechesi in questo villaggio era assolutamente vietato dal governo comunista. Le attività religiose in Etiopia erano allora autorizzate solo all’interno delle missioni già esistenti. Ma visto che il partito comunista non era ancora penetrato politicamente in queste
zone limitrofe, prendevamo due volte la settimana la jeep e andavamo a trovare quella povera gente.
P. Angelo aveva avuto contatto con un uomo di Kassuba, un “ricco”: possedeva l’unica casa del villaggio, costruita con mattoni e
coperta con un tetto di alluminio; il resto del paese abitava nei tukul di paglia. Questi, a mio avviso, erano molto più vivibili e freschi della sua “villa”. L’uomo era animista; possedeva due mogli, e da ciascuna aveva avuto allora otto figli. Mise la sua “reggia” a disposizione della predicazione, e con l’aiuto di Claudio, il nostro fratello falegname che costruì dei banchi, la casa poteva contenere un centinaio di persone sedute. I giovani si accovacciavano per terra. In alto, su una scala regnava un gigantesco gallo che seguiva tutta la catechesi.
Era impressionante la scena del nostro arrivo a Kassuba: ancora da lontano p. Angelo dava con il clacson segni del nostro imminente arrivo, mettendo così in movimento gran parte del villaggio, che cominciava a correre verso la nostra “cattedrale”.
Indelebile nella memoria mi rimane il giovane Mulù. Veniva sempre a piedi da molto lontano e beveva le nostre parole, come di fatto erano, Parola di Dio per lui. Dopo la catechesi su Abramo venne da me chiedendo: “Dimmi se questa storia è scritta in qualche libro, perché vorrei rileggerla”. Pochi giorni dopo avrebbe ricevuto dalla Chiesa la Bibbia e avrebbe potuto leggerla. In occasione della “consegna della Bibbia” venne a Kassuba il Vescovo, Mons. Domenico Marinozzi. Per procurargli una trono vescovile, Claudio aveva messo insieme uno sgabello particolare, un po’ più alto dei nostri, ma sempre sgabello era. La visita del vescovo rischiò di degenerare in una catastrofe. Proprio quella notte le due mogli del nostro ricco amico bisticciarono di brutto. I figli si divisero in due campi: chi sosteneva l’una, chi l’altra mamma. Anche i presenti, un centinaio, cominciarono a rumoreggiare, e questo proprio nel mezzo delle Letture che precedevano la consegna della Bibbia. Non so che cosa avrà pensato Mons. Marinozzi. Sedeva silenzioso sul suo trono-sgabello. Fu p. Angelo a domare le donne; in extremis, riuscì a raddrizzare la situazione e a salvare la celebrazione. La consegna della Bibbia terminò con l’annuncio della convivenza finale nella missione di Soddo (….).
Liberato dal vizio del fumo
(….) La cosa raggiunse dimensioni sempre meno controllabili. Ma la mia "buona volontà" faceva cilecca. Contro il fumo mi trovavo in uno stato di debolezza assoluta.
Dopo aver preso la solenne decisione di “tagliare” una volta per tutte, buttavo le sigarette nella pattumiera. Qualche volta resistevo anche due mesi. Ma la vita è piena di imprevisti e al primo problema serio – Angela che mi contraddiceva, una macchina che mi fregava il parcheggio, una convivenza di itineranti – riprendevo col fumo. Altre volte non resistevo due giorni; mi alzavo a metà della notte, andando, come un cane, a rovistare nella spazzatura per ripescare le cicche che avevo con fierezza eroica buttato via qualche ora prima. Una volta scesi addirittura in strada a raccogliere quelle fumate e buttate via da non so chi. Che schifo!
Ma ora avevo davanti l’aut aut dei medici; la cosa si faceva maledettamente seria. Mi venne in aiuto la Pasqua. In quella occasione, dopo la liturgia del Venerdì Santo, la Comunità – per chi ne ha le forze – proclama il grande digiuno: un astenersi da ogni cibo che dura fino alla Comunione con il Corpo e col Sangue di Cristo, all’alba della domenica.
Obbedii e mi consegnai nelle mani del Gesù. Da quella Pasqua in poi, non solo non ho mai più fumato, ma non ho neanche avuto il minimo di quei malesseri e di quelle voglie irresistibili che accompagnano per mesi chi si vuole disfare del fumo. Tutto avvenne perché avevo puntato la poca forza di volontà che ho non sull’abbandono del fumo, ma sulla grazia del sacramento. “Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue, ha la vita eterna”. Nel mio caso, smettere col fumo non era la vita eterna, ma ne era un piccolo segno. Dio si manifesta personalmente sempre nell’impossibile. Se poi il fumo sia un vizio, non lo so. In questa materia Papa Pio XI non era infallibile e può anche aver sbagliato. Credo che dipenda molto dal carattere della persona e anche dal tipo di mamma che uno ha avuto. Io succhiavo ad un seno che mi era sempre mancato.
Itineranza negli USA
(….) Fortworth - Dallas
All’aeroporto di Fortworth ci aspettava Mons.Schumacher – nessuna parentela con l’omonimo Michael – il vicario generale della diocesi; il poveruomo era piuttosto preoccupato. Aveva chiesto le nostre catechesi per la diocesi, ma non ci aspettava cosi presto e non aveva avuto il tempo di prepararci un alloggio decente.
Per le prime tre notti fummo alloggiati in un dormitorio dei Cursillos de Cristianidad, forse in onore di Kiko che, prima di iniziare il Cammino, faceva parte dei Cursillos, ai quali deve la sua preparazione teologica.
Poi Mons. Schumacher ci assegnò una casa; una bella villetta, proprietà della diocesi. Era in vendita e perciò totalmente vuota. Un diacono mi accompagnò in uno dei tanti “Thrift shop” della Caritas diocesana, dove ci diedero 7 letti e qualche mobile. Eccoci sistemati!
Per modo di dire…perché dentro casa i gabinetti erano intasati e inutilizzabili. Per fare i nostri bisogni fummo costretti a scavare in un remoto angolo del giardino una fossa ombreggiata. Questa “installazione sanitaria”, però, doveva rimanere segreta: andava contro le leggi del Texas. Ma non solo, c’era anche un altro motivo: ogni giorno un sensale accompagnava eventuali compratori a visitare la nostra “villa”. Il gabinetto-buco doveva rimanere assolutamente invisibile. Così, dopo ogni seduta – seduta breve, perché non c’era dove sedersi e leggere – coprivamo la fossa con rami frondosi.
In Texas, senza un proprio mezzo di trasporto sei fritto. Le distanze sono enormi, gli autobus pubblici pochissimi. Il Vescovo di Forth Worth ci prestò quindi generosamente una Limousine del 1964. Anche lei era generosa: nel bere. La chiamammo "Queen Mary", perché era vecchia e, come la regina madre, alcolizzata. Meno male che nel 1982 la benzina non costava quanto oggi.
Cominciammo quindi, visitando le parrocchie che avevano chiesto con tanto fervore undici catechesi. L’équipe che ci aveva preparato il terreno – non parlo della fossa – s’era lasciata abbagliare dal trionfalismo texano. I parroci non sapevano che la catechesi era anche diretta a loro stessi e che avrebbero poi seguito di persona la o le Comunità nascenti. Si sgonfiarono, quindi, uno dopo l’altro, come palloncini. Dopo un mese ci trovammo con niente in mano. Niente parrocchie, ma anche niente soldi.
Cerchiamo lavoro
Negli USA, cercare lavoro senza permesso di soggiorno viene punito con l’estradizione immediata. Questa era la nostra situazione e non potevamo attenerci alla legge. Facemmo quindi una riunione urgente, in cui ognuno proponeva il lavoro che era disposto o in grado di fare.
P. Angel, anche se messo a stretto regime dal suo pastore tedesco, mangiava poco, ma era sistemato. Angela, che è infermiera, poteva assistere anziani o malati, ma bisognava trovarli. Emmanuele, il nostro cantore, diceva che si voleva preparare per cantare canzoni romane e napoletane in uno dei tanti ristoranti italiani di Dallas, ma era terrorizzato al pensiero di doversi esibire in un locale pubblico. Reticente, telefonò alla sua famiglia, chiedendo di inviargli urgentemente il suo album di canzoni popolari italiane.
(….) Ogni giorno accompagnavo con la “Queen Mary” i miei quattro figli più grandi a scuola. Questa si trovava nel sud di Dallas, a quindici miglia di distanza. Lì un parroco irlandese aveva accettato di accoglierli gratuitamente nella scuola cattolica, annessa alla parrocchia. Quella mattina, la viziosa “Queen Mary” aveva di nuovo scolato tutto e le era rimasta nella pancia solo un po’ di benzina per l’andata. Non sapevo come tornare a casa.
A St. Augustine, contemporaneamente con l’inizio della scuola, veniva celebrata la Messa in cappella, alla quale partecipavo sempre. Quel giorno, durante lo scambio della pace, un vecchietto, con il quale non avevo mai parlato, mi mise in mano 50 dollari. Era un segno del Signore, un miracolo. Chi glie l’avrà ispirato?
Per prima cosa diedi da bere all’assetata regina madre. Poi comprai uova, pane, burro, latte, patate e frutta e mi misi alla ricerca di lavoro. Per Angela trovai lavoro nel nord della città come badante ad un’anziana nevrotica, solo che questa era molto povera; alla fine ci costava più la benzina che bevveva la “Queen” di quanto guadagnavamo dando da bere a lei.
Cominciai a girare per le gallerie di Dallas. Tutti erano cortesi, ma volevano vedere quadri originali e critiche. Sembrava impossibile trovare chi mi desse fiducia.
Una galleria messicana
A Downtown c’era una splendida galleria, tenuta da messicani. Provai anche lì, e feci una proposta tipicamente americana: se mi avessero dato un anticipo di 500$ per comprare un cavalletto, colori, cartoni ecc., avrei dipinto per loro una mostra in cambio di 100$ per ciascun quadro di media dimensione e di 200$ per cartoni grandi. Era mercoledì Mi promisero una risposta per sabato sera.
Per sostenerci, il Signore fece un altro miracolo: il giorno seguente, sempre durante la Messa, il vecchietto mi mise in mano non altri cinquanta, ma cento dollari. Se avesse continuato così, in modo esponenziale, saremmo diventati dei Rockfeller. Ma siccome la ricchezza è, per chi non la possiede, ma ancora di più per chi la detiene, una sciagura, il Signore che conosce le mie debolezze ebbe misericordia e fermò dalla successiva Messa in poi, la manna che usciva dalla mano del vecchio.
Sabato sera ci stipammo, équipe e bambini, nella “Queen Mary”. Per non fare sfoggio della nostra Rolls Royce, la parcheggiai a debita distanza dalla galleria, ed entrai – i fratelli aspettavano nella Limousine – quasi certo di trovarmi davanti all’ennesimo rifiuto.
Era in corso una vernice e il proprietario, un giovane messicano bello ed elegante, mi presentò a diverse persone con le parole: “Questo artista svizzero ci sta preparando la prossima mostra”. Capii che la cosa era fatta. All’uscita, il dandy mi mise in mano una busta. Conteneva 500$. Che trionfo! (….) In un solo mese dipinsi ventisette quadri, di cui alcuni molto grandi. Piacquero ai messicani, che mi misero in mano altri 3000 $.
Insieme al gallerista andai da un bravo corniciaio, un vecchio ebreo, al quale lasciammo i dipinti in lavorazione. Ormai tutto era in mano alla galleria(….).
Il santo bevitore
Ogni mattina, verso le undici, lo vedevamo passare davanti al nostro convento. Poco prima di Natale, verso mezzogiorno, bussò alla nostra porta. Aveva fame. Lo invitammo a sedersi con noi a tavola. Era ubriaco fradicio e indossava un capotto di pelo di cammello, impiastrato di vomito. Angela cercava di aiutarlo a toglierselo e ad appenderlo, ma lui non se ne voleva assolutamente disfare. Chissà che cosa conteneva?! Stranamente faceva finta di mangiare la carne e, quando credeva che nessuno lo vedesse, la buttava sotto il tavolo. Forse era vegetariano, forse gli mancavano, come adesso a me, i denti e non riusciva a masticare? Era uno spettacolo, ma ad Angela certi comportamenti maleducati non sfuggono e cercò, inutilmente, come fa con me, di rieducarlo. Pensavamo di ospitarlo per qualche giorno, e chiedemmo il permesso al Pastore tedesco. Ce lo vietò categoricamente: “Conosco quest’individuo; era ricco e aveva qua vicino una casa di proprietà. È un ubriacone. Ha dato fuoco alla propria casa. Sua moglie ha chiesto e ottenuto il divorzio. Ha distrutto tutta la sua famiglia. Vi vieto assolutamente di accoglierlo!”.
(….) Avevamo ancora in tasca qualche centinaio di dollari. Non potendo – noblesse oblige – lasciare la “Queen mary” sul lastrico (doveva bere ancora parecchio prima della nostra partenza) e non volendo alimentare l’alcolismo del nostro ospite, gli destinammo “solo” duecento dollari. Sarebbero bastati per passare almeno dieci giorni in un modesto albergo. Decidemmo di accompagnarlo, ma non sapevamo dove portarlo. A questo punto fu lui ad intromettersi: conosceva una pensione; se lo avessimo accompagnato con la nostra macchina, ce l’avrebbe indicata.
Così Emmanuele, io e il santo bevitore ci mettemmo in viaggio.
Seguendo le sue indicazioni arrivammo nei pressi del Down Town. Dove mai ci voleva condurre? Ad un certo punto ci indicò: “E qui, qui a destra!”. Voltando, ci trovammo davanti all’Hilton, il miglior albergo della città.
Perché no? Gli avevamo destinati 200 $ per passare qualche giorno in un albergo e questi li avremmo spesi. Una scena irrepetibile si svolse davanti agli occhi allibiti dei ricchi ospiti dell’albergo: sostenendo il nuovo cliente, Emanuele a destra, io a sinistra – aveva trincato anche a casa nostra ed era ancora più ubriaco di prima – lo trascinammo lentamente, attraverso la lunga hall, in direzione della reception. Barcollava, con addosso sempre quel vecchio cappotto puzzolente, impiastrato di vomito. Tutti ci osservavano, tutti tacevano disgustati davanti all’intrusione di un po’ di verità nel loro mondo dorato. In Europa non ci avrebbero mai permesso di entrare in un albergo di lusso conciati in quel modo. In America, invece, non è così: basta che paghi cash. L’uomo aveva i suoi documenti e i nostri 200 $ bastarono appena per pagargli una stanza singola per una notte e a ordinargli una cena. Aveva deciso così, facendo suo il motto della “buon’anima”: meglio un giorno da leone che mille anni da pecora. L’aveva applicato al suo modo di vivere: meglio un giorno all’Hilton che dieci giorni in una lurida pensione (….)
Ormai la nostra visita alle diocesi di Forth Worth e Dallas volgeva al termine. Nessun parroco aveva voluto la nostra predicazione. Rimase solo una speranza: il vice di St.Augustin, padre X. X., che ci vedeva con simpatia. Sapeva che poco dopo sarebbe stato nominato parroco. Ci disse che in tal caso ci avrebbe chiamato a Dallas.
Il Messia dei Lubavitch (….)
Già che parlo dei Lubavitch, voglio raccontare il mio incontro con il loro rebbe e “messia” Menachem Mendel Schneerson.
Nel 1985, partendo da Parigi per New York, mi assegnarono sull’aereo un posto accanto ad una coppia chassidica.
Mi parlarono del loro rebbe Menachem Schneerson, e della sua intenzione di creare una biblioteca ebraica universale, contenente tutti i commenti ebraici alla Scrittura, suggerendomi di portargli la mia fatica. Specificarono che la domenica mattina, alle ore 10.00,
riceveva chiunque, prima gli uomini e poi le donne.
Due domeniche dopo, decisi con Angela, che era arrivata con i bambini da Palermo, di fare una visita al rebbe. Per sicurezza mi feci accompagnare da Shon, un gigante irlandese e responsabile di una Comunità di New York.
Quando arrivammo alla Parkway Avenue Nr.660, la dimora del messia, c’era già una lunga fila di uomini e donne che aspettavano, in code separate, l’apertura delle porte del paradiso. Verso le 10.00 del mattino quelle si aprirono e, ignorando la “politesse” inglese e ipocrita “Ladys first”, entrarono naturalmente per primi gli uomini (….) Quando arrivò il mio turno, entrai nella grande sala dove il rebbe, al centro di un centinaio dei suoi discepoli, dava udienza, e regalava anche a ciascuno un dollaro da distribuire ai poveri. Questa americanata si basava su un detto dei Pirqei Avoth, un testo sapienziale dell’ epoca di Cristo: Ogni buona azione ne suscita un altra. Fuori della villa uno stormo di shnorrer aspettava di ricevere da ciascuno che usciva dal paradiso, il dollaro benefico. Forse il rebbe voleva imitare Gesù - e ormai un buon americano - invece del pane, moltiplicare i dollari.
Chi andava dal rebbe per chiedere un miracolo, chi per avere più successo negli affari, chi per divorziare, chi perché trovasse marito per sua figlia, una vedova sessantenne che ancora non aveva avuto figli, ecc. Quando mi trovai di fronte al lui – aveva un bel viso con profondi occhi azzuri – visto che non chiedevo niente, mi chiese lui, in inglese: “What do you want?”.
“Non chiedo niente, rebbe – dissi – Ho sentito dire che lei sta creando una biblioteca universale di commenti ebraici al Tenach. Sono venuto per darle il mio libro sul Salmo 34, “Benedirò il Signore in ogni tempo”.Rebbe Schneerson lo prese con gratitudine e mi diede anche una benedizione messianica, ormai indelebile e, come congedo, il solito dollaro.
Ma per me l’incontro non era terminato, anzi: iniziava. Aggiunsi: “Rebbe, volevo precisare che sono diventato ebreo cattolico e che il commento contiene la tradizione ebraica e cristiana sul Salmo 34”.
Mi fissò a lungo, poi, alzandosi, esclamò: “Hai fatto il peccato più grande che un ebreo possa commettere!”.
Ripresi, alzandomi anch’io: “Diventando cristiano non ho commesso nessun peccato, anzi, Gesù mi sta guarendo dai miei peccati”.
Gridò: “Il fatto che tu non riconosca questo peccato è la prova lampante che sei invischiato nel peccato fin sopra la testa. Pregerò il Signore che tu possa ravvederti e riconoscere il vero messia!”.
“La ringrazio delle sue preghiere” – ci guardavamo negli occhi come due combattenti per la verità – anch’io pregherò che il Signore le faccia il dono di riconoscere che il Messia d’Israele è Gesù Cristo!”.
A quel punto i discepoli iniziarono a rumoreggiare, e sarebbe bastato un cenno del rebbe che mi sarei preso un sacco di botte. Ma Rabbi Schneerson mi rispettava, e in più avevo alle mie spalle la mia guardia del corpo, Shon, il gigante irlandese.
Per il Rebbe l’incontro era un’ altra volta terminato. Ma per me ancora no. Aggiunsi: “Allora, rebbe, che facciamo con il mio libro per la sua biblioteca?”.
Rispose: “Lo prendo, perché sulla terra ne circoli uno di meno!”.
A questo punto, salva la vita, raggiungemmo l’uscita e ci allontanammo insieme ad Angela, che da brava suffragetta non voleva più aspettare il suo turno con le altre pie donne. Appena fuori, fummo aggrediti da una schiera di Shnorrer che “esigevano” il nostro dollaro. Anche il gentile Shon ne aveva ricevuto uno. Ma da peccatori incalliti che siamo, rifiutammo di fare del bene ed entrammo nel primo bar ordinando, con i due dollari del messia, un orribile caffé americano.
Finalmente al riparo dal messia, mentre sorseggiavamo disgustati quel caffé americano, ebbi l’ardire di raccontare ad Angela e a Shon l’ultima storiella sulla “peste messianica” che contamina l’ebraismo universale: “Una coppia di ricchi ebrei” – di povero sono rimasto solo io – “si sono fatti costruire a Miami Beach una sontuosa villa con piscina e golf. “Avraham – dice la moglie – ora che possiamo godere nella la nostra vecchiaia questa bella villa, verrà il messia. Dovremo lasciare tutto e – Dio non voglia – andare a Gerusalemme!”. E Avraham: “Non ti preoccupare, Sarele, Dio ci ha salvati dagli egiziani, ci ha salvati dai greci, ci salverà anche dal messia!”.
Ma la storia – non la barzelletta – continua ancora: l’anno seguente ebbi una mostra a Venezia. Ogni volta che mi fermo in quella città benedetta dalla bellezza, vado nel Ghetto a visitare il mio amico Rami, un Lubavitcher e discepolo del rebbe.
Vi incontrai due ragazzi di Brooklyn. Mi riconobbero. Ero stato filmato e avevano visto su un video il mio incontro col rebbe. Mi raccontarono che, appena l’eretico, cioè il sottoscritto, uscì dal paradiso, il rebbe prese il mio povero libro, lo scaraventò per terra, vi salì sopra e lo calpestò ripetutamente con i suoi santi piedi, un po’ come fece Deborah, la profetessa, dopo la sua vittoria sui nemici d’Israele, danzando e cantando sui loro cadaveri: “Così periscano tutti i tuoi nemici, o Signore!”.
I quadri ritornano
(….)Corsi dal corniciaio presso il quale avevamo lasciato i quadri e lì, ammucchiati in un angolo, giacevano abbandonati e senza cornici, i miei cari cartoni. Che cosa era successo? I galleristi avevano subito un crack ed erano fuggiti in Messico. Può darsi che, oltre al commercio d’arte, avessero anche altre attività meno nobili e appariscenti, chi lo può sapere? Sta di fatto che non si erano mai più fatti vedere. Il corniciaio pensava già di buttare i dipinti ed era ben felice di sbarazzarsene. Io, ancora più di lui, di averli ritrovati e riavuti. Li avevo venduti, mi erano stati pagati ed ora mi tornavano gratuitamente in grembo (….).
Incoraggiato dalle profezie di Angela, che non avrei mai trovato una casa editrice disposta a pubblicare le mie scartoffie, mi misi alla ricerca di un editore.
Dopo tante risposte negative, arrivò una lettera della ELLEDICI di Torino: era interessata alla serie sui Salmi. Con loro ho pubblicato sei volumi, uno sul Salmo 34 e cinque sui Salmi 1-14. L’ultimo libro di questa serie commenta i Salmi 11-14 e porta il titolo “Tutti sono corrotti. La prefazione è di don Giuseppe Dossetti. Ma, leggendola sarete delusi; non parla della politica italiana, ma della corruzione dell’uomo.(….)
Dono “anonimo” di una Bibbia
A Chicago, nella canonica di Padre Corbo successe una cosa strana. Una mattina scesi le scale e trovai, vicino alla rampa, un minuscolo libro. Si trattava di un Antico Testamento in ebraico e inglese. Ebbi JERUSALEM”. Non si è mai saputa l’origine di questa Bibbia. Chiesi a p. Corbo, alla cuoca, alla segretaria, a chi potesse appartenere, da dove proveniva. Nessuno la sapeva. Io capii che il Signore mi aveva mandato un messaggio, incoraggiandomi a
Perseverare. Da allora ho scritto ventisei commenti in tedesco: sulla Genesi, sui Salmi, sui Midrashim, sul chassidismo, e infine quattro sull’umorismo ebraico. Tre sono usciti, il quarto è questo. Molti di questi libri sono stati tradotti in altre lingue. Non scrivo questo per vantarmi, non ne ho nessuna ragione, ma per esaltare la forza del battesimo, che porta alla luce i doni nascosti e seppelliti in noi. Posso solo dire, come Davide nel Midrash: “Io mi glorio nel Signore”.
Una brutta notizia
Quando tornammo l’anno successivo a Dallas, ci aspettava una notizia tremenda: p. X, il parroco di St. Augustin, era accusato di pedofilia e il vescovo pensava di ridurlo allo stato laicale.
La notizia, purtroppo, era vera e conosco anche una delle sue vittime, un ragazzo della parrocchia che adesso è adulto e, da quello che mi riferisce sua madre, ha la vita distrutta.
La cosa che rattrista di più è che X. era una persona non solo generosa, ma anche amabile e buona; inoltre era attaccato alla tradizione cattolica, cosa piuttosto rara tra i parroci americani. Possedeva una vasta biblioteca: molti testi dei Padri della Chiesa, san Tommaso d’Aquino al completo, e li studiava. Chi sa quali esperienze avrà avuto da bambino, chi può immaginare come il diavolo sia riuscito a sedurlo. A noi, ma anche al vescovo, sembrava una persona equilibrata. L’aveva appena nominato parroco. Facemmo di tutto per salvare il suo sacerdozio, ma ormai se l’era giocato. Fu sospeso a divinis (….).
Grazie a Dio, le due Comunità di Dallas non crollarono, anzi: eccetto il parroco, nessuno ne uscì. Ma ne soffrì la catechesi in parrocchia. Il nuovo parroco, un uomo molto tradizionalista, non voleva occuparsi del Cammino, ma ci permise di fare una seconda catechesi. Ci affiancava qualche volta il vice parroco, un giovane, decimo figlio di una ricca famiglia d’origine irlandese.
Mancando p. X. e la sua generosità, dipendemmo per un alloggio dai fratelli. Fu il padre del ragazzo violentato che ci mise a disposizione una sua vecchia casa, mezza diroccata, che da anni era in disuso. Questa però aveva due difetti: il minore era che si trovava accanto ad un motocross, da dove giorno e notte ci giungeva il rombo delle motociclette; il maggiore era molto più serio: la fossa igienica non funzionava e vivemmo per due mesi letteralmente respirando cacca. Mi venne nostalgia della fossa scavata nel bel giardino della villa di Fort Worth…
San Antonio - Houston
(….)Meno male che il Venerdì Santo la sala degli anziani al pian terreno rimase chiusa. Angela ed io ci precipitammo giù con i nostri materassi, accendemmo l’aria condizionata e ci accingemmo finalmente a dormire, almeno per una notte, quando dopo qualche minuto si bussò violentemente alla porta: i giovani della parrocchia dovevano fare una prova teatrale per la Pasqua. Con la stessa rapidità con la quale eravamo scesi, e, per non farci vedere mezzo nudi, forse ancora più velocemente, tornammo nel nostro solarium. Questo, dopo Pasqua, si trasformò addirittura in un crematorio, che rimase acceso fine alla nostra partenza per Palermo, a fine maggio.
Una rapina a Palermo
(….) Avevamo sceso le valigie. Mentre aspettavamo il resto della famiglia, sempre un po’ in ritardo, arrivò un motorino con due scugnizzi: uno si fermò davanti a me e mi puntò un pugnale sul petto, mentre l’altro, con una mano minacciava Cataldo, con l’altra apriva le valigie. Cominciò con la più alettante, la borsa di cuoio. Gli luccicarono gli occhi quando tirò fuori il primo oggetto, il sacchetto di velluto, ricamato con fili d’oro. Mniam..., sicuramente conteneva gioielli... L’aprì e tirò fuori la Bibbia con la croce d’argento. Impallidendo fece ricadere la Bibbia nella borsa, gridando: “So’ parrini! So’ parrini!”. Il complice ritirò il coltello e i due fuggirono sul loro motorino. Sotto il sacchetto di velluto c’era quello che cercavano: i soldi per l’evangelizzazione.
Se non fossero stati educati dalla mafia, che ha una schizofrenia crimino-religiosa, avrebbero trovato sei milioncini.
Poveri ragazzi! Voi non ci crederete, gli corsi dietro – non con i soldi – ma gridando: “Tornate, Dio vi ama!” Per fortuna non mi diedero ascolto. Vorrei avere io il timore di Dio di questi delinquenti.
Lascio l’itineranza (….)
Screzi con Kiko
(….) Un’altra volta cercai di fargli cambiare idea su un dettaglio liturgico. Durante l’Eucaristia del Cammino si accende sulla mensa la Chanukkàh, il candeliere a otto braccia che viene acceso durante gli otto giorni che dura la festa di Chanukkah. Il nono braccio è nient’altro che un servitore per accendere ogni giorno una luce , fino all’ottavo giorno della festa. Feci notare a Kiko che un candelabro a nove braccia, come viene acceso in tutte le Eucaristie del Cammino, non ha nessun senso liturgico. Infastidito, non mi volle ascoltare: disse che il numero nove era quello dell’evangelizzazione. Può darsi, ma il numero otto è per gli ebrei, tra tanti altri significati, il numero del Messia; nel Cristianesimo il numero di Gesù Cristo Con questa affermazione il discorso era chiuso.
Ritorno a Palermo
La mia decisione di lasciare l’itineranza ferì profondamente mia moglie Angela e fu l’inizio di un graduale deterioramento dei nostri rapporti. Lei avrebbe voluto continuare. In più aveva lasciato un posto statale, il che in Sicilia vuol dire tanto: era infermiera ferrista in cardiochirurgia all’ospedale civico di Palermo. Dopo due anni di itineranza aveva data le dimissioni; l’aveva fatto per onestà verso l’evangelizzazione e verso lo Stato di cui era impiegata. Al nostro ritorno in Italia dovette prima lavorare in varie cliniche, poi sottostare ad un nuovo esame statale, cosa molto difficile, che le riuscì.
Rientrati a Palermo, entrammo a far parte di una équipe di catechesi della nostra Comunità. Mancavano due anni al termine del percorso neocatecumenale. Malgrado le mie riserve, decisi di continuare il Cammino, almeno fino alla sua conclusione. Questa avvenne con un viaggio in Israele e il rinnovamento delle promesse battesimali a Palermo, durante la Veglia Pasquale in Cattedrale.
Esco dal cammino
(….) Avevo terminato il percorso neocatecumenale, e non avevo mai emesso voti, né promesse: credo che uscire dal movimento fosse ecclesialmente e personalmente corretto.
Con una lettera, nella quale esposi le mie perplessità e critiche, comunicai a Kiko e Carmen e ai miei catechisti la mia decisione di lasciare il Cammino (….)
Venni minacciato da Carmen che non avrei più venduto un libro nel Cammino, cosa che avvenne prontamente. La traduzione e la serie sui Salmi “È tempo di cantare”, fu messa sull “Indice” delle Comunità.
(….) Sono profondamente rattristato della piega che ha preso il cammino per l’assolutismo dei suoi iniziatori. Continuando così, certamente non io, ma loro stessi , “distruggeranno tutto”. Il cammino, che non ha preparato una generazione di creatori, ma di imitatori, semplicemente non reggerà alla storia e ai suoi mutamenti.
Andiamo da Giovanni Paolo II
Erano i giorni della prima guerra in Iraq, quando ricevetti dal Vaticano una telefonata: ero invitato, insieme alla mia famiglia, alla Messa celebrata dal Papa.
Partimmo tutti, da Palermo, dormendo accampati – eravamo in sette – presso fratelli di Comunità. Arrivammo in Vaticano alle 7.00, puntuali, ma frastornati. Percorremmo scalinate, corridoi, stanze, saloni, altri corridoi, sempre salutati con ossequio militare dalle guardie svizzere, nostri connazionali. Finalmente giungemmo nella cappella del Papa. Due dei miei figli trascinavano un grande quadro che volevo regalargli.
Prima della celebrazione, il segretario del Papa, Mons. Dziwicz, mi chiese di leggere la Lettura e il Salmo responsoriale. Dopo l’Eucaristia il Papa venne a salutare e scambiare qualche parola con tutti gli invitati. Quando passò da noi, gli presentai Angela e i nostri figli Noemi, Mirjam, Davide, Sara e Rachele.
Mentre gli regalavo un mio libro sui Salmi 1 e 2, “Beato l’uomo che ama la Torah”, mi disse con la sua voce bassa, ma non a bassa voce: “Lei legge bene!”.
Il quadro che gli regalammo, “Alba sul monte Sinai”, gli piacque abbastanza: “Bell’impressionismo”, disse, ma non sembrò interessato più di tanto. Era colpa della mia avarizia: invece di regalargli un paesaggio, avrei dovuto portargli uno dei miei dipinti ebraici.
Divido la Chiesa
(….) Da parte di Kiko, con il quale cercavo di conservare comunione ed amicizia, la prima reazione alle mie osservazioni fu: “Daniele, sei diventato un nemico del Cammino! Tu dividi la Chiesa!” (….)
Sono un Demonio
(….) In occasione di un nostro incontro a Firenze. Kiko mi confidò che nel Cammino c’era una sorella, una specie di visionaria, le cui profezie finora si erano sempre avverate. Questa “sibilla” li aveva messo in guardia: “Ci ha detto che tu sei un demonio e che distruggerai tutto!”.
Risposi che se ero un demonio era inutile che si affaticasse con me: ero spacciato e condannato all’inferno (….)
Fuori dal Cammino
(….) La prima conseguenza della mia uscita dal Cammino fu un ostracismo decretato dai catechisti, ai quali obbedirono quasi tutti i fratelli della mia stessa Comunità di Palermo. Nessuno mai mi chiese le ragioni del mio “tradimento”. Allo stesso modo quasi tutti gli itineranti, anche quelli con i quali avevamo evangelizzato, seguirono l’anatema dall’alto. Dopo venticinque anni di Cammino, ero destinato a morire lentamente di “asfissia ecclesiale”.
Una mostra su Edith Stein
(….) Per la canonizzazione di Edith Stein, in religione sr.Teresa Benedetta della Croce, i Carmelitani di Palermo prepararono una mostra itinerante sulla Santa. In quell’occasione mi chiesero di dipingere qualche quadro. Per me, pittore di paesaggi, nature morte, fiori e Chassidim, era un compito arduo. Non avevo mai dipinto su commissione, e mai qualche soggetto storico.
Mi trovavo a Torrano, nel lungo corridoio che mi serviva da studio. Ricordo benissimo il senso di impotenza e di imbarazzo che provai, mettendomi al lavoro. Non potevo più affidarmi né alla mia tecnica
né al mio solito modo di esprimermi, quello che i critici chiamano “lo stile personale”.
Invocai la Santa, che mi è tanto vicina per la sua storia, quanto mi è estranea nei suoi difficili scritti filosofici e teologici, e fui esaudito. Dipinsi con estrema facilità, come sotto dettatura, tre quadri: “Edith Stein arriva ad Auschwitz”, “L’attesa della morte” e “Alla morte con il suo popolo”.
Catechesi sui Salmi
Da quando sono uscito dal Cammino non mi ha mai abbandonato una certezza interiore: sono chiamato dal Signore alla predicazione del Vangelo. Me lo confermava l’esperienza di quindici anni di itineranza, la profezia dello Starets Amfilochios a Patmos e l’incoraggiamento di don Giuseppe Dossetti e del mio padre spirituale don Divo.
Iniziai quindi, in varie parrocchie e comunità di Palermo e dintorni, Roma e Livorno delle catechesi sui Salmi. Catechesi esistenziali, che miravano alla formazione di un cammino comunitario, nel quale, durante quattro o cinque anni si percorrono tutti i 150 Salmi del Salterio. A causa del mio disturbo bipolare e della mancanza di un presbitero che mi affiancasse, ho dovuto interrompere queste catechesi.
Ora che il mio bipolarismo è debellato e sotto controllo, ho ripreso la predicazione. Non più all’interno delle parrocchie, come avviene nel cammino neocatecumenale, ma in ritiri di un giorno o di una settimana.
Una mostra a Ferrara
In coincidenza con un convegno delle ACLI sull’ebraismo, esposi a Ferrara i miei quadri sul mondo chassidico e su Gerusalemme. Durante la mattinata, Amos Luzzato, allora presidente delle comunità ebraiche d’Italia, vide i miei quadri; ne fu entusiasta e si offrì di organizzarmi una mostra a Venezia.
In un suo intervento durante il convegno dichiarò che l’ebraismo, al contrario del Cristianesimo, non conosceva una teologia del
peccato originale. Avevo appena terminato un volume su questo tema “L’inizio della storia - il peccato originale, nel quale citavo una serie di passi della tradizione rabbinica, che affermano in modo inequivocabile, anche se non con le parole usate dalla teologia cattolica, l’esistenza del peccato originale.
Durante il dibattito che seguì alla relazione di Luzzato, intervenni, contraddicendolo e citando i testi rabbinici che lui ovviamente misconosceva. La prese così male da non rivolgermi più né saluto né parola. Di conseguenza, dimenticò anche la “bellezza” – parole sue – dei miei quadri e la mostra prospettata. Con la sua stessa reazione, contraddisse la sua relazione, confermando ciò che negava: l’esistenza del peccato originale.
Tra la fine della mostra di Ferrara e l’inizio di un’altra a Friburgo, in Germania, avevo due settimane “vuote”. Visto che per un così breve tempo non mi conveniva tornare a Palermo, decisi di andare da don Divo, che si trovava in quel momento a “San Gregorio”, la casa dei monaci della sua Comunità a Biella.
Davide
Due giorni dopo il mio arrivo, ricevetti una chiamata telefonica da Strasburgo: “Vieni subito, tuo figlio è impazzito!”. Partii immediatamente. Era esplosa in Davide la sindrome bipolare I, e al grado più elevato.
Che fosse bipolare non potevamo sospettarlo. Era stato sì un bambino spericolato, affascinato dal fantastico, e un adolescente irrequieto e sensibile; molto dotato per la musica, ma incostante; intelligentissimo, ma minimalista nello sforzo scolastico, così da essere sempre appena promosso, e mai bocciato. Quando arrivai a Strasburgo era in casa di un amico, medico psichiatra, ed era già un po’ più tranquillo; da due giorni prendeva dei farmaci (….).
L’incidente
Alle sette venne il custode, staccò l’automatico e avviò il telefono di casa. Mi chiamò. C’era un messaggio: Davide aveva avuto sull’autostrada un incidente ed era ricoverato nel reparto di rianimazione dell’ospedale di Offenburg. Partii all’istante.
Arrivo alla sala di rianimazione. Entro e mi siedo accanto a mio figlio intubato. Quando esco, chi mi aspetta? Busam, il collezionista di quadri che la sera prima aveva cenato con noi,. A parte l’aver mangiato insieme, è un estraneo, non l’ho mai visto prima. Mi abbraccia e dice: “Ho in una casa fuori città una stanza per gli ospiti. Gliela metto a disposizione per il periodo che dovrà stare a Offenburg”.
I medici dicono che quel periodo sarà breve; il ragazzo è paralizzato e la TAC del cervello mostra molteplici ematomi in movimento e non promette nulla di buono. La prognosi è più che riservata. Appena il medico me lo comunica, devo uscire; sudo e corro nel bagno a vomitare.
La prima cosa da fare è avvisare Angela. Già la sera stessa arriva, distrutta, all’aeroporto di Strasburgo. Martedì – siamo nella Settimana Santa – preghiamo vicino a Davide.
Se dovesse sopravvivere, i medici parlano di un coma molto lungo, forse irreversibile.
Il mercoledì decidiamo di andare a Strasburgo, prendere le cose, lasciate all’accademia; un viaggio di appena un ora.
Una voce
Mentre guido, sento dentro di me una voce: “Davide si sveglierà Venerdì, a mezzogiorno”.
Non sono un carismatico, anzi: ogni ricerca di miracoli mi da un certo fastidio. Ma questa voce non è un pensiero, non l’ho suscitata io, è una certezza. Mi pongo la domanda se parlarne ad Angela o tacere. Già mi considera mezzo matto, se poi si tratta solo di un pio desiderio, farò la figura del pazzo totale!
Ma è la mamma di Davide, è mia moglie. Decido di comunicarle il messaggio: “Davide si sveglierà Venerdì, a mezzogiorno”. Passano altri due giorni di attesa angosciante. (….)
Ma se è così sicuro di se stesso, perché non crea un candelabro appropriato e lo spiega, invece di appropriarsi e in più di usare in modo improprio un oggetto liturgico ebraico che è caratterizzato dal numero otto.
La stessa cosa succede per esempio con il Tallit, lo shawl nel quale l’ebreo ortodosso si avviluppa per la preghiera dello Shemà, che viene usato, anch’esso, in modo improprio come copri leggio.
1 commento:
Ma se è così sicuro di se stesso, perché non crea un candelabro appropriato e lo spiega, invece di appropriarsi e in più di usare in modo improprio un oggetto liturgico ebraico che è caratterizzato dal numero otto.
La stessa cosa succede per esempio con il Tallit, lo shawl nel quale l’ebreo ortodosso si avviluppa per la preghiera dello Shemà, che viene usato, anch’esso, in modo improprio come copri leggio.
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