lunedì 7 marzo 2011
ULTIME DA RAS LANUF
RAS LANUF (LIBIA) - Alle porte di Ras Lanuf, ultimo avamposto della "Rivoluzione" sulla strada per Sirte, e poi Tripoli, c'é il punto di raccolta dei volontari: decine di giovani che aspettano solo di poter saltare sulla prima jeep diretta verso la prima linea, verso il villaggio di Ben Jawad, appena una quindicina di km più avanti, dove si combatte ferocemente, strada per strada. Ma la stessa Ras Lanuf è stata violentemente attaccata dalle forze fedeli a Gheddafi. Questa mattina, è stata bombardata di buonora. E i rivoluzionari che la presidiano sono orgogliosi di mostrare che ancora una volta "i caccia del colonnello hanno mancato l'obiettivo". Sono ansiosi di mostrare una grossa bomba inesplosa, ficcata nella sabbia del deserto, a pochi metri dalla strada, e dai loro depositi di armi.
"L'hanno sganciata meno di un'ora fa, ma noi siamo ancora qui e loro mordono la sabbia", dice Rajab Gargun, che arriva da Ben Jawad alla ricerca di munizioni e che fino a meno di tre settimane fa era sergente dell'esercito. Non finisce la frase che qualcuno grida: "C'é un caccia", e tutti guardano il cielo, mentre le tre o quattro batterie antiaeree nel raggio di poche centinaia di metri aprono il fuoco. Alla cieca, senza alcun ordine preciso. Raffiche ripetute, decine di colpi. Poi qualcuno dice: "Eccolo, è laggiù sulla raffineria", distante forse un paio di km. E di nuovo altre raffiche. All'orizzonte si vede appena un puntino nero, tra le nuvole. Allora Rajab riprende a parlare: "A Ben Jawad è ancora molto pericoloso. Non andate. I soldati e i mercenari di Gheddafi sono appostati ovunque. Sparano su tutto quello che si muove. Compresi i gatti". Di nuovo si interrompe.
Arrivano a grande velocità sei o sette pick-up e gli autisti, che si sporgono dai finestrini con il mitra in mano, gridano: "Yallah, yallah. Andiamo, andiamo a Bin Jawad". E il segnale che tutti aspettano. Partono raffiche di kalashnikov al cielo, e cori di "Allah Akbar", mentre frotte di volontari saltano sui cassoni delle auto. Che in un attimo, in un'atmosfera da 'Mad Max', ripartono sgommando e suonando forsennatamente il clacson. E facendo partire altre raffiche di armi automatiche. "A Ben Jawad - dice Rajab - non ci sono bandiere della Libia libera. Nessuno la porta al collo. Sarebbe un bersaglio. Gli abitanti sono ambigui. Alcuni hanno preso i soldi di Gheddafi e ora ospitano i suoi uomini, li aiutano a sembrare dei nostri. Ma noi li riconosciamo da come parlano. Dal loro accento, dal loro dialetto", dice ancora, aggiungendo: "Lì ognuno combatte da solo. Non abbiamo alcun capo". Ma "il comandante Salah" è un capo. E' li vicino, che controlla le sue armi e quelle dei suoi uomini, un gruppo di fedelissimi. E' molto rispettato. Quando la mattina passa per i checkpoint andando verso la prima linea, gli uomini lo riconoscono e lo salutano, con cori di invocazioni ad Allah e, naturalmente, con raffiche di mitra al cielo. Tuta mimetica, turbante alla Saladino, stivali lucidissimi e occhiali Ray Ban, Salah ha a sua volta lasciato l'esercito e ha abbracciato "la Jihad per la liberazione della Libia".
Non tradisce alcuna emozione quando dice: "Domani saremo a Sirte (distante 150 km) e poi, presto, a Tripoli", altri 450 km più avanti. Rapidamente finisce di caricare nel bagagliaio del suo suv le scorte di munizioni, vicino a quelle di pane. Poi parte verso Ben Jawad, dicendo "Ci vediamo dopo. Inshallah". Allo stesso tempo, dall'altra parte arrivano diverse ambulanze, a sirene spiegate. Trasportano i feriti della battaglia. Sono una quindicina. Tra di loro c'é anche un giornalista francese, che forse si è spinto troppo in avanti. Vengono ricoverati all'ospedale di Ajdabiya, a un centinaio di km a Nord-Est, nelle retrovie. Uno di loro, Mohammed, di 20 anni, giunto con mezzi di fortuna da Bengasi, oltre 370 km da Ras Lanuf, è ferito gravemente. Ma ha ancora la forza per denunciare che "i soldati di Gheddafi usano le donne e i bambini come scudi. Si nascondono dietro di loro e ci sparano addosso. Sono dei bastardi".
"L'hanno sganciata meno di un'ora fa, ma noi siamo ancora qui e loro mordono la sabbia", dice Rajab Gargun, che arriva da Ben Jawad alla ricerca di munizioni e che fino a meno di tre settimane fa era sergente dell'esercito. Non finisce la frase che qualcuno grida: "C'é un caccia", e tutti guardano il cielo, mentre le tre o quattro batterie antiaeree nel raggio di poche centinaia di metri aprono il fuoco. Alla cieca, senza alcun ordine preciso. Raffiche ripetute, decine di colpi. Poi qualcuno dice: "Eccolo, è laggiù sulla raffineria", distante forse un paio di km. E di nuovo altre raffiche. All'orizzonte si vede appena un puntino nero, tra le nuvole. Allora Rajab riprende a parlare: "A Ben Jawad è ancora molto pericoloso. Non andate. I soldati e i mercenari di Gheddafi sono appostati ovunque. Sparano su tutto quello che si muove. Compresi i gatti". Di nuovo si interrompe.
Arrivano a grande velocità sei o sette pick-up e gli autisti, che si sporgono dai finestrini con il mitra in mano, gridano: "Yallah, yallah. Andiamo, andiamo a Bin Jawad". E il segnale che tutti aspettano. Partono raffiche di kalashnikov al cielo, e cori di "Allah Akbar", mentre frotte di volontari saltano sui cassoni delle auto. Che in un attimo, in un'atmosfera da 'Mad Max', ripartono sgommando e suonando forsennatamente il clacson. E facendo partire altre raffiche di armi automatiche. "A Ben Jawad - dice Rajab - non ci sono bandiere della Libia libera. Nessuno la porta al collo. Sarebbe un bersaglio. Gli abitanti sono ambigui. Alcuni hanno preso i soldi di Gheddafi e ora ospitano i suoi uomini, li aiutano a sembrare dei nostri. Ma noi li riconosciamo da come parlano. Dal loro accento, dal loro dialetto", dice ancora, aggiungendo: "Lì ognuno combatte da solo. Non abbiamo alcun capo". Ma "il comandante Salah" è un capo. E' li vicino, che controlla le sue armi e quelle dei suoi uomini, un gruppo di fedelissimi. E' molto rispettato. Quando la mattina passa per i checkpoint andando verso la prima linea, gli uomini lo riconoscono e lo salutano, con cori di invocazioni ad Allah e, naturalmente, con raffiche di mitra al cielo. Tuta mimetica, turbante alla Saladino, stivali lucidissimi e occhiali Ray Ban, Salah ha a sua volta lasciato l'esercito e ha abbracciato "la Jihad per la liberazione della Libia".
Non tradisce alcuna emozione quando dice: "Domani saremo a Sirte (distante 150 km) e poi, presto, a Tripoli", altri 450 km più avanti. Rapidamente finisce di caricare nel bagagliaio del suo suv le scorte di munizioni, vicino a quelle di pane. Poi parte verso Ben Jawad, dicendo "Ci vediamo dopo. Inshallah". Allo stesso tempo, dall'altra parte arrivano diverse ambulanze, a sirene spiegate. Trasportano i feriti della battaglia. Sono una quindicina. Tra di loro c'é anche un giornalista francese, che forse si è spinto troppo in avanti. Vengono ricoverati all'ospedale di Ajdabiya, a un centinaio di km a Nord-Est, nelle retrovie. Uno di loro, Mohammed, di 20 anni, giunto con mezzi di fortuna da Bengasi, oltre 370 km da Ras Lanuf, è ferito gravemente. Ma ha ancora la forza per denunciare che "i soldati di Gheddafi usano le donne e i bambini come scudi. Si nascondono dietro di loro e ci sparano addosso. Sono dei bastardi".
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