venerdì 26 marzo 2010
IL RUOLO DEL CANTORE NEL CAMMINO NEOCATECUMENALE ANCORA UNA VOLTA SI COPIA DALL'EBRAISMO
INDICE
In questo itinerario di educazione alla Fede, il cantore ha la missione di aiutare a creare la comunità liturgica o, meglio ancora, di ricrearla; di trasformare tante volte una pluralità in una unità di culto: "Ad una sola voce, con un solo cuore ed una sola anima".
Culto spirituale che si esprime nell'azione liturgica della comunità. Culto spirituale che è fonte inesauribile, nel nostro camminare storico, di ciò che vi è più profondamente innocente: il sentimento del nostro peccato illuminato dall'ineffabile amore di Qualcuno che ci ama così, che ci ama benché siamo stati suoi nemici; fonte della conversione, fonte della FEDE.
La vocazione del cantore
di A. J. Heschel
Che cosa si aspetta di ottenere una persona che entra in una sinagoga? Per studiare si frequenta la biblioteca, per arricchirsi esteticamente si va al museo d'arte, per ascoltare musica, si va al concerto. E qual è la ragione per andare alla sinagoga? Ci sono molte opportunità per acquisire i valori mondani, mestieri, tecniche, ma dove si può andare per imparare le profondità dello spirito? Esistono molte opportunità per parlare in pubblico, ma dove troviamo delle opportunità per il silenzio? Molti c'insegneranno come essere eloquenti, ma chi c’insegnerà a tacere? E certamente importante sviluppare un senso di umorismo, ma non è più importante possedere un senso di riverenza? Dove si può acquisire la sapienza eterna della compassione? Dove la paura della propria crudeltà, diventare sensibile al pericolo della propria ottusità? Dove si può apprendere che la verità più profonda la s’incontra attraverso la contrizione? Costantemente ci troviamo bisognosi di purificazione. Abbiamo la necessità di sperimentare momenti in cui lo spirito entra nella nostra storia. Ognuno possiede un senso di bellezza ed è capace di distinguere tra bello e brutto, ma dobbiamo diventare sensibili non solo all'estetica, ma allo spirito, ed è nella sinagoga dove possiamo cercare quest’interiorità e questa sensitività. Per raggiungere una certezza spirituale uno non può appoggiarsi sulle proprie risorse. Abbiamo bisogno di un’atmosfera, nella quale la nostra sete dello spirito è condivisa da una comunità. Certo, abbiamo bisogno di studenti, di studiosi, di maestri e di specialisti, ma soprattutto abbiamo bisogno di testimoni, di uomini immersi nell'adorazione, che almeno per un momento, si rendano conto che la vita perde ogni senso senza l'attaccamento a Dio. E compito del cantore creare la comunità liturgica, e trasformare una pluralità di individui che pregano in un’unità di persone che adora. Pensando alla sua esperienza religiosa, un ebreo si rende conto che i momenti religiosi più salienti della sua esistenza sono accaduti durante la preghiera. Il culto è la sorgente dell'esperienza religiosa, dell'introspezione. In passato le ore vissute nella liturgia erano le sorgenti della nostra fede e ci dobbiamo chiedere se queste sorgenti sono ancora vive nei nostri tempi. Un giorno, dopo una liturgia, sentii dire ad una signora anziana: "Era un culto incantevole!". Mi venne da piangere. E' questo che la preghiera significa per noi? Dio è serio, non è mai "carino". Ma noi c’immaginiamo che il sentimentalismo sia preghiera. Servite il Signore con timore ed esultate con tremore! La preghiera é gioia e timore, fiducia e tremore insieme. Sono cresciuto in una famiglia dove lo spirito era una cosa concreta. Non c'era eleganza, ma c'era contrizione, non c'era molta ricchezza, ma c'era un gran desiderio di Dio. La mia famiglia era un luogo dove, incontrando un ebreo, incontravo l'ebraismo e quando entravamo in una sinagoga qualche cosa accadeva. Anche oggi, quando vado in sinagoga mi aspetto sempre di esperimentare di nuovo quest'atmosfera. Ma che cosa trovo nelle sinagoghe odierne? Che cosa "accade" veramente nelle nostre liturgie? Uno si deve rendere conto delle difficoltà del cantore. Spesso l'invito a pregare s’infrange come contro un muro di ferro. Non sempre l'assemblea è aperta all'adorazione e il cantore deve aprirsi una breccia attraverso l'indifferenza generale. La deve conquistare, per poter pregare a nome suo, spesso deve prima svegliare quelli che dormicchiano, prima di poter asserire di essere Shaliach Tzibur, l'inviato della comunità... La tragedia della Sinagoga di oggi è la spersonalizzazione della preghiera. Essere cantore è diventato un'abilità, una tecnica, un mestiere, una cosa impersonale. Come conseguenza di questo, i suoni che escono dal cantore non suscitano nessuna partecipazione nell'assemblea, entrano nelle orecchie, ma non toccano il cuore. La parola ebraica appropriata per cantore è Baal Tefillah, maestro di preghiera. La missione del cantore è di condurre alla preghiera; non sta in piedi davanti all'arca, come un artista isolato, cercando di mettere in mostra la sua abilità o di "mostrare" la sua voce e neanche sta davanti all'arca come un individuo, ma insieme alla sua comunità, con la quale si deve identificare. Egli rappresenta e, allo stesso tempo, ispira la comunità. Nella Sinagoga la musica non è fine a se stessa, ma un mezzo che deve aiutare l'esperienza religiosa. La sua funzione è di aiutarci a vivere un momento alla presenza di Dio: ad aprirci a Lui nella lode, nella conoscenza di noi stessi e nella speranza... Ci siamo abituati a credere che il mondo è un vuoto spirituale e che sono gli angeli che proclamano piena è la terra della sua gloria. Forse che solo i Serafini sono dotati di un senso per la glorificazione? I cieli proclamano la gloria di Dio. Come la dichiarano? Come la manifestano? Non c'e' discorso, non ci sono parole, neanche si sente la loro voce. I cieli non hanno voce, non si può udire la gloria. E' il compito dell'uomo di rivelare quello che é nascosto, di essere voce della g1oria, di cantare il suo silenzio, di esprimere, di dire ciò che c'è nel cuore di tutte le creature. La gloria è qua, invisibile e silenziosa e l'uomo ne è la voce. Il suo compito è di essere il canto. Tutto il cosmo è un assemblea in cerca di un cantore. E difatti ogni settimo giorno proclamiamo: tutti ti benedicono, tutti ti lodano, tutti dicono: nessuno è santo come il Signore. Quale orecchio ha sentito come gli alberi cantano a Dio? Ha mai pensato la nostra ragione di invitare il sole a lodare il Signore? Eppure, quello che l'orecchio non ode, e che la ragione non percepisce, la nostra preghiera lo spiega alla nostra anima. Si tratta di una verità che soltanto lo spirito può cogliere: Tutte le tue opere ti benedicono, Signore. Non siamo soli nei nostri atti di lode. Ovunque esiste vita, esiste una liturgia silenziosa. L'universo cerca continuamente l'unità attraverso l'adorazione e l'uomo è il cantore dell'universo ed a lui è stata data la facoltà per questa preghiera cosmica. Cantare significa intuire ed affermare che lo spirito è reale e che la gloria è presente. Cantando percepiamo quello che è al di là di ogni percezione. Il canto, e particolarmente il canto liturgico, non è unicamente un modo di esprimersi, ma un modo per far scendere il cielo sulla terra. Il valore numerico della parola shirah = canto equivale al valore numerico della parola preghiera = tefillah. La musica sinagogale è prima di tutto musica al servizio della parola liturgica. La sua anima è il nussach ( unzione ) e la sua integrità dipende dalla coltivazione dello nussach. Una delle ragioni principali del decadimento della preghiera sinagogale è la perdita del nussach, 1a perdita del canto. Pregare senza nussach significa perdere la partecipazione attiva della comunità. Se la gente non è capace di pregare, certamente è capace di cantare e il canto conduce alla preghiera. Quello che intendo come distacco della musica sinagogale dalla parola liturgica, non è un cantare senza parole, ma un cantare che contraddice la parola liturgica. Un problema che é insieme spirituale e tecnico. La voce del cantore non deve rimpiazzare, né tanto meno interpretare erroneamente lo spirito delle parole. Il cantore che preferisce far sentire la sua voce più che essere portatore della Parola e che si allontana dallo spirito delle parole, non avvicinerà mai la comunità allo spirito delle parole, non avvicinerà mai la comunità alla preghiera. "Sii umile di fronte alle parole" dovrebbe essere un imperativo per il cantore... Davanti alla santità dell'arca un vero cantore si rende conto che il suo uditorio non sono gli uomini, ma Dio stesso; si renderà conto che non è là per intrattenere la gente, ma per rappresentare il popolo d'Israele e gli succederà d'arrivare a momenti nei quali dimenticherà il mondo intero, ignorerà la comunità e sarà pervaso dalla coscienza di Colui alla cui presenza sta. Allora la comunità si renderà conto che il cantore non dà un concerto, ma adora Dio; che pregare non significa ascoltare un cantore ma identificarsi con quello che viene proclamato. Preghiera è canto. Cantate a lui, salmeggiate a lui meditate su tutte le sue meraviglie, sul mistero che ci circonda. La meraviglia supera ogni descrizione, il mistero sorpassa le facoltà di ogni linguaggio. L'unico linguaggio che sembra compatibile con il miracolo e il mistero dell'esistenza è il linguaggio della musica. Musica è più di solo espressività. E' piuttosto un estendersi in un regno che é al di là di tutto quello che si può afferrare verbalmente. L'espressione verbale contiene il pericolo del "essere inteso letteralmente" e di servire come sostituto per l'intuizione. Parole umane diventano slogan e gli slogan si trasformano in idoli. Ma la musica é il rifiuto della finitezza umana. Musica è un antidoto contro l'idolatria delle parole umane. Mentre altre forze nella società si alleano per appiattire la nostra mente, la musica ci regala momenti in cui il senso dell'ineffabile diventa vita... E stato detto che, quando il tempio stava ancora in piedi, chi trasgrediva la legge, portava un suo sacrificio di espiazione a Gerusalemme, il Sacerdote lo scrutava e discerneva tutti i suoi pensieri e se percepiva che l'uomo non si era completamente pentito, lo mandava dai Leviti che cominciavano a cantare salmi per portare il peccatore alla Teshuvah (pentimento). La musica ha il potere di condurci alle soglie del pentimento, ad un insopportabile presa di coscienza della nostra vanità e fragilità, e alla tremenda riverenza dovuta a Dio. Eppure, la musica è un veicolo che può trasmettere qualsiasi cosa: può esprimere volgarità o rendere partecipe del sublime; può trasmettere vanità o ispirare l'umiltà, può generare furore o stimolare alla compassione; può incitare alla stupidità o riempire di un senso di meraviglia; spesso è la voce della più alta riverenza, ma spesso l'espressione dell'arroganza più brutale! Prima di entrare nella sinagoga, dimentico tutto quello che so e cerco di cominciare tutto da capo. Alcune volte le parole si aprono, altre volte rimangono chiuse, ma anche allora è il canto che introduce colui che si trova povero di fede... e la voce del cantore può essere una porta. Una delle cose che inquinano il canto dei cantori odierni è la mancanza del senso del mistero che è alla radice di ogni coscienza religiosa. La musica raggiunge la sua dimensione religiosa quando cessa di essere soddisfatta con quello che è alla portata del sentimento e dell'immaginazione. La musica religiosa è un tentativo di trasmettere quello che ci è vicino, ma che non possiamo afferrare. La perdita di questa tensione sottomette tutto il canto sinagogale al pericolo di diventare distorsione dello spirito. La musica è l'anima del linguaggio. Una buona frase è molto di più che alcune parole messe insieme. Una frase senza tono, senza una qualità musicale è come un corpo senz'anima. Il segreto di una frase ben fatta sta nella creazione di una qualità tonale che corrisponde al senso profondo delle parole. Purtroppo questa armonia manca spesse volte nell'espressione dei cantori. Si rimane scioccati a sentire come dei pensieri meravigliosi sono espressi con toni falsi: parole sublimi, ma melodie volgari. Quante cose che si odono nelle nostre sinagoghe sono aliene alla nostra liturgia. Quanta musica che ascoltiamo distorce o addirittura contraddice le parole, invece di sottolinearle o glorificarle. Una tale musica ha un effetto disastroso sulla nostra sete di preghiera; sentendo alcune melodie sinagogali moderne ci si sente spesso feriti. ...Perché‚ la nostra musica religiosa riacquisti la sua dignità, non basterà studiare la tradizione musicale. Quello che urge è un rinnovamento liturgico. Questo non solo richiederà un nuovo senso del sacro e una fede rinnovata, ma anche una scrutatio del senso profondo delle parole liturgiche e del modo come appropriarsi e proclamare queste parole. Il declino dei cantori continuerà finché non ci renderemo conto che il senso del sacro e la fede sono più importanti del talento e della tecnica e che la musica non deve assolutamente perdere la sua relazione con lo spirito delle parole... Nel giudaismo lo studio è una forma di culto (adorazione), ma si può anche affermare che il culto è una forma di studio ed include la meditazione. Non basta che uno si poggi sulla sua voce. Si richiede da lui uno sforzo costante per trovare accesso alla sublimità delle parole liturgiche. A che cosa ci esponiamo nell'atmosfera della Sinagoga? Non solo a sacre parole e non solo a sacri toni. Questo certamente è l'essenza della nostra liturgia: Essa è una combinazione di parola e di musica. Ma quanto grande la musica possa essere, non è mai il fine ultimo. L'ultimo e il supremo fine è Dio, e il mezzo attraverso il quale Egli ci guida è la Parola. Noi non possediamo musica sacra. La musica è solo il linguaggio del mistero. Ma c'è qualche cosa che è più grande del mistero (nel senso di inaccessibile). Dio è il senso aldilà di ogni mistero, e questo senso è nascosto nelle parole della Bibbia, mentre le nostre preghiere sono un tentativo di portare alla luce quello che è nascosto in queste parole. Difficilmente ci sono prove dell'esistenza di Dio, ma ci sono testimoni. Primi tra tutti la Scrittura e poi, coloro che la cantano. La nostra liturgia è un momento in cui questi due testimoni si esprimono. Sulla testimonianza di due testimoni tutto sarà deciso. Forse questo è il modo di definire un cantore. E' una persona in cui si incontrano questi due testimoni. In cui l'io e la preghiera sono uno. Vorrei definire l'essere cantore come l'arte dell'esegesi liturgica, l'arte di interpretare le parole della liturgia. Le parole muoiono di routine: è compito del cantore dar loro vita. Il cantore è una persona che conosce il segreto della risurrezione delle parole. Quest'arte non richiede solo che il cantore offra la propria vita, ma anche il potere contenuto nella pietà di tutte le generazioni passate. La nostra liturgia contiene infinitamente di più di quanto i nostri cuori possono "sentire". La liturgia ebraica in parola e in canto è un sommario della nostra storia. Esiste una Torah scritta e una Torah orale, Scrittura e Tradizione. Noi ebrei affermiamo che l'una senza l'altra é inintelligibile. Allo stesso modo possiamo affermare che c'è una liturgia scritta e una liturgia vissuta. C'è la liturgia, ma c' è anche un approccio interiore e una risposta ad essa, una via per dare vita alle parole, uno stile in cui le parole diventano una proclamazione personale ed unica. Il Signore ordinò a Noè: "Entra nella Tevah, tu con tutta la tua famiglia". Tevah significa arca, ma significa anche parola. Pregando, una persona deve entrare nella parola con tutto quello che possiede, con il cuore e l'anima, col pensiero e con la voce. "Fa una luce per la parola". La parola é buia e il compito di chi prega é di accendere la luce nella parola. Umilmente dobbiamo avvicinarci sia alla parola come al canto. Non dobbiamo mai dimenticare che la parola è più profonda del nostro pensiero e che il canto è più sublime della nostra voce. E' la parola che ci porta. I rabbini dicono che "coloro che portavano l'arca dell'alleanza erano portati dall'arca". E difatti, chi sa portare la parola in tutto il suo splendore, è portato da questa parola stessa e, chi ha acceso una luce all'interno della parola, scoprirà che ha acceso una luce dentro la sua anima. Dov'è la Shekinah? Dove avvertiamo la presenza di Dio? Secondo lo Zohar la Shekinah si trova nella Parola. Dio è presente nelle parole sacre. Pregando scopriamo la santità delle parole. Il canto è l'espressione più intima dell'uomo. In nessun altro modo l'uomo si scopre così completamente come quando canta; perché la voce di una persona, particolarmente quando canta, è l'anima in tutta la sua nudità. Quando cantiamo esprimiamo e confessiamo tutti i nostri pensieri. In ogni senso l'essere cantore è effusione del cuore. Si racconta che il Baal Shem Tov stava ascoltando intensamente un musicista che cantava. I suoi discepoli gli chiesero perché fosse così assorto ad ascoltare il canto. Rispose: "Quando uno canta, butta fuori tutto quello che ha fatto". Si racconta che molti cantori frequentavano la scuola di un rabbi chassidico. Tutti si radunavano da lui per le feste. Prima dello Yom Qippur, un cantore venne dal Rabbi chiedendo la benedizione perché‚ doveva andare a casa sua per preparare i canti per il giorno del perdono. Il Rabbi gli disse: "Perché‚ devi rivedere i canti e le note, sono gli stessi dell'anno scorso. E' più importante che tu rivedi la tua vita e osservi le tue opere, perché‚ non sei lo stesso dell'anno scorso". Un uomo pio della comunità aveva perso il lavoro e cercava come sopravvivere. I membri della sua comunità, che lo ammiravano per le sue conoscenze della Torah e la sua pietà, gli suggerirono di fungere come cantore nei "dieci giorni tremendi". Ma egli si considerava indegno di servire come messaggero della comunità, come colui che fa salire le preghiere dei suoi compagni davanti al Santo. Andò a trovare il suo maestro, il Rabbi di Husiatin, gli espose la sua triste situazione e accennò all'invito fattogli dalla comunità di servirla come cantore, ma che aveva paura di accettare l'invito perché‚ si sentiva indegno."Abbi paura e canta", gli rispose il Rabbi.
Quando Israele canta
Ho scelto il titolo di questa conferenza: quando Israele canta, ispirandomi al titolo del libro del padre De Menasce sulla mistica ebraica: quando Israele ama Dio, perché quando Israele ama Dio, Israele canta.
La musica ebraica, è una musica antichissima, che come tutte le musiche, dall'ambito liturgico si estende a tutte le espressioni musicali della vita. La stessa cosa avvenne anche per la musica della Chiesa. Noi sappiamo che molti canti popolari sono usciti dal canto piano della Chiesa per rientrarvi più tardi, talvolta anche impoveriti, con elementi sentimentali e folcloristi.
La musica ebraica è stata dunque prima di tutto musica del culto, della liturgia del tempio di Gerusalemme. Della composizione e dell'esecuzione di questa musica erano incaricati i Leviti, che erano allo stesso tempo compositori, cantori e musicisti. I libri delle Cronache ci parlano dettagliatamente di tutto questo. Qui non vogliamo controllare le cifre, ma appare senz'altro che il culto del tempio di Gerusalemme era un culto di un fasto grandioso.
Purtroppo ci mancano dati sicuri sulla musica di quel tempo e tutto ciò che è stato scritto è puramente ipotetico, perché manca qualsiasi documento musicale di quell'epoca. Mentre i greci possedevano un sistema di scrittura musicale, sembra che gli ebrei dell'epoca biblica non l'abbiano conosciuto, di modo che noi non possiamo assolutamente sapere come i Leviti suonavano e cantavano nel tempio di Gerusalemme.
Le uniche tracce della liturgia del tempio le troviamo nella musica della Sinagoga. Questa tradizione musicale potrebbe anche essere sospetta, se non avesse avuto dei figli nel canto delle liturgie cristiane. Difatti il canto piano Romano, il Gregoriano, specie di retto tono, come anche il canto bizantino, sono usciti senza alcun dubbio dalla Sinagoga. E che cosa potevano cantare i primi cristiani, se non quello che avevano appreso dagli Apostoli, che a loro volta provenivano direttamente dalla Sinagoga? Se dunque uno sospettasse della purezza della tradizione sinagogale, possediamo la testimonianza delle due sorelle minori, la Chiesa romana e quella bizantina che attraverso innumerevoli documenti testimoniano dell'autenticità e purezza del canto sinagogale.
Ora questa musica sinagogale è essenzialmente orientale, come lo è del resto il canto piano della Chiesa di Roma e quello delle Chiese d'oriente, anche se con modalità differenti. Dico orientale nel senso di mediorientale, di semitico. Le parole di Pio XI: spiritualmente siamo semiti, vale anche nel campo musicale; anche musicalmente siete dei semiti.
Sì, il fondo della tradizione musicale della Chiesa è semitico, è ebraico. Non so se voi avete avuto mai l'occasione di andare in Medioriente, ma là, quando uno alza la voce per farsi sentire in pubblico, comincia a cantare. Questo proclamare, gli orientali lo chiamano l'unzione. L'unzione è canto; L' ho constatato presso gli ebrei d'oriente e presso gli arabi. Si pensi solo al Muezzin che convoca i fedele alla preghiera. Come immaginarselo senza canto!
La voce di chi canta convoca molto più di chi semplicemente parla. Mi ricordo dei predicatori itineranti ebrei, che cantavano la loro predicazione ed erano chiamati i Maggidim. Maggidim in ebraico significa colui che annunzia, proclama.
Ho avuto la fortuna di poter ascoltare uno degli ultimi Maggidim. Venne a Parigi, prima della guerra, e predicò in una Sinagoga che oggi non esiste più. Era un vecchio meraviglioso. Veniva dalla Polonia e faceva un viaggio di propaganda religiosa. Essendosi fermato un sabato in questa piccola Sinagoga, predicò sul versetto: come un pastore egli fa pascolare il gregge... porta gli agnellini sul petto. Fin dalle prime parole era un solo canto ed è rimasto canto fino alla fine, così emozionante, che tutta l'assemblea singhiozzava. Io sono certo che quell'emozione era dovuta a quello che diceva il Maggid, ma anche al fatto che egli cantava con una bella voce di baritono, senza guizzi, in un modo che somigliava moltissimo alla proclamazione della Torah nella Sinagoga, oppure ad uno di quei lunghi brani di canto gregoriano. Purtroppo questi tipi di predicatori sono scomparsi, forse ce ne sarà ancora qualcuno negli Stati Uniti, ma la maggior parte di loro sono morti e, come voi sapete, non se ne trovano più, né in Russia, né in Polonia.
Questo carattere orientale del canto non è soltanto un'espressione tecnica della struttura orientale del canto ma è soprattutto l'espressione di uno spirito orientale, in cui l'inflessione della voce diventa una necessità, non è un ornamento al quale si ricorre per una preghiera. Il canto diventa una necessità.
Insisto, dicendo canto, non musica, perché la musica sinagogale non esiste, sì, per la verità ne esiste una, molto recente e poco ortodossa, ma nei tempi antichi nella Sinagoga esisteva solo il canto, perché, in segno di lutto per la distruzione del tempio di Gerusalemme, tutti gli strumenti furono banditi dal culto sinagogale come dice il salmo dell'esilio: sui fiumi di Babilonia, là sedevamo piangendo al ricordo di Sion; ai salici di quella terra appendemmo le nostre cetre. Nell'esilio, dopo la distruzione del tempio, c'è rimasto un solo strumento, se lo volete chiamare così, il SHOFAR, il corno di montone, in cui si soffia alla festa di Rosh Hashanah e Yom Kippur, per ricordare al Signore il sacrificio di Isacco e per preparasi al suono dell'ultima tromba. Non si tratta di uno strumento musicale perché non produce una melodia, ma solo due o tre suoni acuti. Per questo noi non parliamo della musica sinagogale, ma del canto sinagogale. Questo canto lo si trova dovunque, ma prima di tutto nella proclamazione dei libri sacri. Non è concepibile una proclamazione di qualsiasi brano della Scrittura senza il canto.
Dalla scrittura il canto è poi passato a tutte le preghiere e questo già prima della Sinagoga. Già nel tempio i salmi erano sempre cantati con l'accoppiamento di qualche strumento musicale, di cui troviamo i nomi indicati nei titoli di alcuni salmi. Così troviamo per esempio: sull'arpa a otto corde, sulla Githith, ecc... In ebraico si distingue tra cantare = shir, e cantare accompagnato da uno strumento = mezamer. Il canto dei salmi, accompagnati o no, si è esteso naturalmente al resto della liturgia.
La Sinagoga, tuttavia, non poteva semplicemente imitare il culto del tempio, perché non c'è, né ci può essere, altro santuario di quello di Gerusalemme e dopo la sua distruzione se ne aspetta la ricostruzione da parte del Messia. La Sinagoga non può sostituire in nessun modo l'aspetto sacramentale del tempio. Le sinagoghe perciò, contemporaneamente al tempio di Gerusalemme per più di quattro secoli hanno sviluppato poco a poco una liturgia autonoma. Questa liturgia si è sviluppata attorno allo shemà, attorno all'atto di fede d'Israele: Ascolta Israele, il Signore nostro Dio, il Signore è l'unico! Amerai il Signore tuo Dio, con tutto il tuo cuore, con tutto il tuo essere e con tutte le tue forze. Così, attraverso una lunga e lenta elaborazione, si è formata tutta la liturgia della Sinagoga, le benedizioni che precedono e seguono lo Shemà, salmi e preghiere, come tuttora la conosciamo.
Si è definito il culto sinagogale come un culto senza sacerdote, ed è esatto, ma è anche inesatto, perché l'officiante, il Chazan, come si dice oggi, non è un sacerdote e nemmeno il rabbino è sacerdote, ma tutta l'assemblea dei fedeli è sacerdotale, la comunità in preghiera è un sacerdote. D'altronde la preghiera liturgica non è valida senza la presenza di un minimo di dieci uomini.
E' meraviglioso che ciò che santifica la liturgia sinagogale non sono solo le parole o quello che si fa durante il culto, ma è il fatto che la comunità si raduna. Per questo i professionisti scelti per la loro pietà e la loro bella voce, erano chiamati Shaliach Tzibur che significa inviato della comunità, delegato per questo servizio dal popolo di Dio. E' dunque importante cantare il meglio possibile ma è più importante essere inviato dalla comunità.
Da molto tempo, quelli che conducono la liturgia e quelli che officiano, ricevono una formazione tecnica. Anche oggi a Parigi esiste una scuola per il canto sinagogale. Ma prima, tali scuole non esistevano, c'erano solo maestri che formavano i propri discepoli ed era spesso un semplice fedele a guidare la liturgia. Questo era un grande onore e nel seno della comunità esisteva una grande emulazione, perché ciascuno aspirava a poter officiare secondo le regole di Mosè e di Israele.
Naturalmente il canto ebraico non si è limitato alla sola Sinagoga, ha proliferato, prima di tutto è entrato nelle famiglie. Voi sapete che presso gli ebrei esiste una liturgia domestica, in cui il padre di famiglia esercita un vero e proprio sacerdozio e quindi deve saper cantare, e da cui nacque tutta una fioritura di cantori popolari, soprattutto di canti per bambini.
Di ninna nanna, per esempio, ne esistono un numero incalcolabile ed io, che mi occupo di folklore, non conosco nessun popolo che abbia tanta musica popolare per i bambini come gli ebrei. Tutti questi canti sono però, in qualche modo, in funzione liturgica. Si predice e si augura la bambino di divenire un uomo istruito nella Torah, uno che sappia servire Dio. Poi esistono canti catechetici, canti corporativi, canti per i matrimoni, canti umoristici e tutti sono più o meno influenzati della liturgia sinagogale.
Questo non stupisce, visto che da quasi duemila anni la vita delle comunità ebraiche si svolge nei ghetti, tutt'attorno alla sinagoga. Perché la Sinagoga non è soltanto casa di preghiera, ma è luogo di riunione, casi di studio, dove le persone vanno ad incontrarsi, per scambiarsi notizie, per chiedere aiuto, per cercare lavoro ecc…
Vivendo così ammucchiati. Durante tanti secoli, gli ebrei si sono impregnati, dell'ambiente sinagogale e, per conseguenza, tutto quello che hanno creato in seguito si è rivestito, più o meno apertamente, di un carattere religioso. Persino le canzoni umoristiche hanno una risonanza religiosa, tutto gira attorno allo stesso asse: i rapporti di dell'uomo con Dio
Certamente anche la Sinagoga lungo venti secoli ha subito varie trasformazioni. Basta pensare alla divisione dell'ebraismo in ebrei Sefarditi, che avevano il loro epicentro in Spagna, nei paese mediterranei ed in Medioriente e Ashkenasiti, che avevano il loro epicentro in Germania e che si trovano soprattutto in Europa e negli Stati Uniti.
Ogni gruppo ha le sue liturgie, i suoi canti, che da un certo momento in poi, hanno beneficiato di una notazione, quello che nel canto cristiano si chiama i neumi. I primi a introdurre dei neumi, furono i rabbini di Tiberiade, che erano dei grammatici e dei musicisti. Li chiamavano Teamim (da taam = giusto) o Neghinoth (da neghmah = melodia). Non so se avete mai osservato un testo ebraico punteggiato. Troverete vari segni per indicare le vocali, che però non si trovano nelle pergamene della Torah destinate alla proclamazione liturgica della parola. Nei nostri libri correnti troverete quindi questa punteggiatura, ma anche altri segni, appunto i teamim e neghinoth, che furono inventati verso il VII secolo d.C. (ma che sono meno precisi dei neumi cristiani, inventati verso l'anno mille), e che indicano solo la salita o discesa, una pausa o un vocalizzo, ma mai indicano, come fanno i neumi cristiani, la precisa altezza o durata della nota. E' proprio quest'imprecisione dei neumi ebraici che ha facilitato il fiorire di diverse tradizioni, ce ne sono più di quindici.
Ho parlato della parentela che esiste tra il canto della Chiesa e quello della sinagoga, ma voglio segnalarvi anche una differenza fondamentale tra i due. Evidentemente l'accento drammatico che potete notare in certi canti liturgici ebraici non conviene per niente alla liturgia romana, sarebbe scandaloso che dei Canonici della Chiesa adottassero queste espressioni emotive! Questa è una discrepanza tra le due liturgie.
La liturgia ebraica è patetica, veemente ed ha ereditato questo dai Profeti, la cui parola era veemente e patetica anche quando parlavano con Dio. L'ebreo ha conservato questa impetuosità; per lui Dio è il re, ma è anche, e soprattutto il Padre, e per questo è molto raro che egli si metta in ginocchio, ma accade spesso che alzi la voce e qualche volta anche il pugno quando la storia gli cade addosso e deve lottare con Dio. Quale è l'attitudine religiosa più autentica? Ostentare davanti a Dio una serenità continua, o aprirsi a lui come un bimbo si apre a suo padre?
(Tratto da una conferenza, tenuta a Parigi)
Léon Algazi
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