giovedì 1 luglio 2010
VI
«SIAMO TUTTI SACERDOTI...”
LA CHIESA, SOCIETÀ VISIBILE E GERARCHICA, FONDA LA PROPRIA
STRUTTURA GIURIDICA SUL SACRAMENTO DELL'ORDINE, CHE DISTINGUE
ESSENZIAL-MENTE IL «SACERDOZIO MINISTERIALE» DA QUELLO COMUNE
A TUTTI I FEDELI SEMPLICEMENTE BATTEZZATI (LG I0). MA, SECONDO
KIKO, TALE DISTINZIONE NON SI DÀ; ESSENDO TUTTI PARTECIPI
DELL’UNICO SACERDO-ZIO DI CRISTO. DUNQUE, NELLA CHIESA NON SI
DÀ UNA GERARCHIA CHE DISTINGUE IL CLERO DAL POPOLO: CLERO
CHE, RAPPRESENTANDO IL CAPO, PARLA E AGISCE “IN NOMINE ET
PERSONA CHRISTI»; E POPOLO CHE, RAPPRESENTATO DAL CLERO, SI
ELEVA A DIO IN VIRTÙ DELLA SUA MEDIAZIONE CHE RENDE SENSIBILE
QUELLA ASSOLUTAMENTE PRIMARIA DEL VERBO INCARNATO.
Come al solito, il fondatore carismatico del M.N. si pronunzia con
stupefacente disinvoltura: “Non abbiamo nemmeno sacerdoti
nel senso di persone che separiamo da tutti gli altri perché in
nostro nome si pongano in contatto con la divinità. Perché il
nostro sacerdote, colui che intercede per noi, è Cristo. E
siccome siamo il suo Corpo, siamo tutti sacerdoti. Tutta la
Chiesa è sacerdotale nel senso che intercede per il mondo. È
vero che questo sacerdozio si visibilizza in un servizio, e ci
sono alcuni fratelli che sono servitori di questo sacerdozio,
“sacerdote” altro che riferita a Cristo; invece si parla di ministri e
presbiteri...” (p. 56s).
Forse siamo al più micidiale “colpo basso” vibrato da Kiko al
cuore della Chiesa: Lutero ne avrebbe esultato. In realtà:
A) il Concilio di Trento contro la pseudoriforma protestante
parla di «sacer-dozio della Nuova Legge» (D-S 1764), del
sacramento dell'Ordine (D-S 1765-6), della Gerarchia
ecclesiastica fondata su tale Ordine (D-S 1767-1770).
B) Dunque, nella Chiesa non tutti sono sacerdoti, ma soltanto
alcuni; e questi sono «ministri» di Cristo, non ministri-deputati
dalla Comunità dei fedeli. I “presbiteri” non sono «fratelli”, ma
“padri” perché, rappresentando Cristo hanno da Lui ricevuto il
potere e la missione di intercedere per essi presso il Padre: la
loro dignità viene dall'alto, non dal basso...; da un «carattere
sacro», non da una designazione umana di tipo democratico.
Pio XII aveva smascherato il ricorrente errore luterano: “Alcuni
(...) insegnano che nel Nuovo Testamento si conosce soltanto
un sacerdozio che spetta a tutti i battezzati (...) e soltanto in
seguito è sottentrato il sacerdozio gerarchico. Sostengono
perciò che solo il popolo gode di una vera potestà
sacerdotale, mentre il sacerdote agisce unicamente per officio
commessogli dalla comunità...” (MD 68).
C)Ma insegnamenti così categorici non sono stati capiti e
accettati da Kiko e seguaci perché, nelle comunità
neocatecumenali, chi presiede non è il “sacerdote”; ma “il
catechista”, ciò che l'attuale Pontefice, bene informato, ha
biasimato con vigore: “… In questo cammino l'opera dei
sacerdoti rimane fondamentale”. Essi sono le «guide della
comunità»; per cui «la prima esigenza che vi si impone - aggiunge,
rivolgendosi a loro — è di sapere mantenere fede alla
vostra identità sacerdotale.
“In virtu della sacra ordinazione, voi siete stati segnati con uno
speciale carattere che vi configura a Cristo Sacerdote, in
modo da poter agire in suo nome. IL MINISTRO SACRO QUINDI
DOVRÀ ESSERE ACCOLTO NON SOLO COME FRATELLO CHE CONDIVIDE IL
CAMMINO DELLA COMUNITÀ STESSA, MA SOPRATTUTTO COME COLUI CHE,
AGENDO “IN PERSONA CHRISTI”, PORTA IN SÉ LA RESPONSABILITÀ
INSOSTITUIBILE DI MAESTRO, SANTIFICATORE E GUIDA DELLE ANIME,
RESPONSABILITÀ A CUI NON PUÒ IN NESSUN MODO RINUNCIARE (...).
Sarebbe illusione credere di servire il Vangelo diluendo il vostro
carisma in un falso senso di umiltà o in una malintesa
manifestazione di fraternità (...). Non lasciatevi ingannare! La
Chiesa vi vuole sacerdoti e i laici che incontrate vi vogliono
sacerdoti e niente altro che sacerdoti. La confusione dei
carismi impoverisce la Chiesa, non l'arricchisce” (GIOVANNI
PAOLO II, Disc. del 9.12.1985, L'Osserv. Rom., 12. 12.1985).
D) Il richiamo è inequivocabile. Ma risulta che ad esso, nelle
comunità neocatecumenali, si è rimasti sordi. Non si riflette che,
negato l'Ordine sacro, soppressa la distinzione essenziale tra
sacerdozio ministeriale e sacerdozio comune, la Gerarchia
Cattolica resta annullata, seguendone la demolizione della
Chiesa come Società visibile, tornando indietro nei secoli alle
aberrazioni ereticali da essa ripetutamente condannate...
VII
LA CHIESA CATTOLICA
NON È L'UNICO OVILE DI CRISTO
SE LA CHIESA CATTOLICA, APOSTOLICA E ROMANA È L'UNICO OVILE DI
CRISTO, L'ESCLUSIVA SOCIETA DA LUI FONDATA E PRESIEDUTA DAL PAPA
QUALE SUO VICARIO E SUCCESSORE DI PIETRO...; SE È STATA ISTITUITA PERCHÉ
NEL MONDO FOSSE L'AREA PRIVILEGIATA DELLA SUA INFLUENZA
REDENTRICE PER L'ESERCIZIO DEI SUOI POTERI...; TUTTI SONO CHIAMATI AD
APPARTENERVI; PER CUI - TRANNE I CASI D'IGNORANZA INVINCIBILE E QUINDI
DI BUONA FEDE - NESSUNO SI PUÒ SALVARE FUORI DELLA CHIESA.
Kiko non è d’accordo. Ed è logico, perché, negando l'Ordine
sacro e il sacerdozio ministeriale, deve rifiutare la struttura
gerarchica della Chiesa quale società visibile. Per
conseguenza, nessuno è obbligato ad appartenervi; la
salvezza è possibile anche restando ad essa estranei. Infatti:
a) secondo lui, «la Chiesa non è una cosa giuridica …” (p.
167).
“Dov'è allora la Chiesa?”, egli si chiede, e risponde: «Dove c'è lo
Spirito Santo, lo Spirito vivificante di Gesù Cristo Risorto, dove è
l'uomo nuovo del Sermone della montagna. Dove c'e questo, lì
c'e la Chiesa» (p. 88). Dunque:
— molti cristiani, che non vivono secondo lo Spirito Santo
perché in peccato mortale, non appartengono alla
Chiesa?... Precisamente: siamo all’errore dei Fraticelli
condannati da Giovanni XXII (D-S 911); per cui la vera Chiesa
sarebbe soltanto quella dei “giusti” o dei «predestinati» che
vivono in grazia di Dio e tendono alla santità: appunto la chiesa
di Giovanni Hus, condannato dal Concilio di Costanza (D-S 1201-
6, 1220-4); la chiesa anabattista quale “assemblea dei figli di
Dio”, o quella luterana come “comunione dei credenti”, o
l'altra di Pascasio Quesnel, condannato da Clemente XI (D-S
2476);
— dal principio secondo il quale la Chiesa, stando a Kiko,
non sarebbe una società visibile-gerarchica, con struttura
giuridica, contro ripetute dichiarazioni del Magistero (cf. Pio
XII, Mystici Corporis, nn. 20-22 e in D-S 3803), si deduce che
moltissimi non battezzati, potendo essere animati dallo Spirito
di Cristo; appartengono alla Chiesa, ciò ch'è falso...;
— talmente falso che Kiko, del tutto coerente con se stesso,
osa aggiungere che “missione della Chiesa non è far sì che tutti
vi entrino a far parte giuridicamente...» (p. 81).
Segue allora che:
b) la Chiesa per costituzione e vocazione non è missionaria,
contro l'esplicita dichiarazione del Vaticano II (LG 13, 16;
AG 2-3, 7; NAE 2, 4). Al riguardo, il nostro teologo non ha pudori:
«la missione della Chiesa” non è “portare dentro quelli che
sono fuori» (p 78). E ancora: “c’è gente che non è chiamata ad
appartenere alla Chiesa» (p. 87). Dunque:
− Gesù s'illudeva quando parlava del suo ovile, nel quale
sarebbero entrate tutte le pecore, sì da formare un solo
gregge sotto un solo Pastore (Gv 10,16);
− s'illudeva e ingannava gli Apostoli quando comandò loro
di andare per il mondo e ammaestrare «tutte le nazioni” (Mt
28,19);
— sono menzognere tutte le parabole del “Regno” paragonato
al chicco di senapa (Mt 13,31s), al lievito (Mt 13,33),
alla rete gettata in mare (Mt 13,47-50): immagini rivelatrici del
progetto di Dio, che vuole tutti salvi attraverso la luce della
fede e mediante il lavacro del battesimo, sia pure IN VOTO
(cf. Gv 3,5; Mc 16,16; Mt 28,19; Rm 6,1ss).
— In altri termini: se la Chiesa non fosse destinata ad accogliere
nel suo seno tutti i popoli, né quindi obbligata ad annunziare il
Vangelo ovunque, la cattolicità non sarebbe una delle sue
note distintive, come quasi tutti i “simboli» ripetono (D-S 3-
5,12,15,19,21,23,27,30,36,41-51,60,126,150). Leone XIII,
riassumendo quel che il Vaticano II avrebbe ripetuto (LG 13,16;
NAE 2; AG 7), sentenzia che la Chiesa per sua natura deve
rivolgersi al mondo intero, senza alcun limite di luoghi e di
tempi: “Talis est natura sua, ut porrigat sese ad t o t i u s
complexum gentis humane, nullis nec locorum nec
temporum limitibus circumscripta...” (Immortale Dei, D-S
3166).
c) Ultima conclusione della teologia kikiana: la salvezza è
possibile anche fuori della Chiesa, e ciò semplicemente
perché Cristo ha così disposto. Egli infatti, secondo la medesima,
non avrebbe concepito la Chiesa «come l'unica tavola di
salvezza su cui tutti devono salire per salvarsi» (p. 78). L'equivoco è
patente: che di fatto molti possano salvarsi non appartenendo
alla Chiesa senza loro colpa, perché la ignorano, è
certissimo...; ma che essa non sia stata fondata per
accogliere tutte le genti e possa quindi salvarsi chi, pur
conoscendone l'origine, la natura e la missione, non si cura
di appartenervi come se altre “vie”, oggettivamente considerate,
potessero condurre egualmente alla vita eterna, è falso.
Su questo, la coscienza della Chiesa è stata sempre
lucidissima e ferma (cf. Conc. XVI di Toledo, D-S 575; INNOCENZO
III, Prof. fidei, D-S 792; Conc: Later. IV, D-S 802; BONIFACIO
VIII, D-S 870; Conc. di Costanza, D-S 1191; Conc. di
Firenze, D-S 1351; LEONE XII, Ubi primum, 5.5.1829, D-S 2720;
GREGORIO XVI, Mirari vos arbitramur, 15.8.1832, D-S 2730; Pio
IX, Qui pluribus, 9.11.1848, D-S 2785; Quanto conficiamur
moerore, 10.8.1863, D-S 2865; Sillabo, 8.9.1864, D-S 2917; lam vos
omnes, 13.9.1868; LEONE XIII, Satis cognitum, 29.6.1896, D-S
3304; Pio XII, Mystici Corporis, 29.6.1943, DS 3821s; Decr. S. Off.,
28.6.1949, D-S 3866-73).
VIII
«PAROLA DI DIO”
AVULSA DAL MAGISTERO
PRIMO DOVERE DELLA CHIESA È QUELLO DI CONTINUARE L'OPERA DEL
VERBO INCARNATO, UNICA LUCE DEL MONDO. SI TRATTA DEL
MAGISTERO ESERCITATO DALLA GERARCHIA, O CHIESA DOCENTE,
RAPPRESENTATA DAL PAPA E DAL COLLE-GIO EPISCOPALE DA LUI
PRESIEDUTO NELL'INTERPRETARE IL SENSO DELLA PAROLA DI DIO
TRAMANDATA DAGLI APOSTOLI E SCRITTA DAGLI AGIOGRAFI IN
MATERIA DI FEDE E COSTUMI.
Non è chiaro se Kiko accetti tal Magistero. Sembra che per lui —
come per i Protestanti — sia l'unica fonte della Rivelazione:
“La Bibbia si interpreta da se stessa attraverso parallelismi”
(p. 372). Dunque, non sarebbe necessario ricorrere ad altri; ciò
che sarebbe pienamente logico, una volta soppressa la
Gerarchia nell'eliminazione dell'Ordine sacro che la fonda.
Di fatto:
a) a proposito del magistero dei Pontefici, Kiko è alquanto avaro
di citazioni:
— si legge appena un cenno sulla riforma liturgica di S. Pio V,
tentata “nel Concilio Laterano” (p. 325). Quale? Risulta che,
dopo quello di Trento (1545-1563), si celebrò soltanto il
Vaticano I (1869-1870);
− da S. Pio V si salta a Giovanni XXIII, degnato anch'egli di un
rapido cenno: ad un suo discorso sulla Chiesa dei poveri Kiko
attribuisce la prima idea del suo “cammino” (p.3);
— la citazione di Paolo VI riguarda il progetto di modifica della
precedente liturgia, secondo la quale, al «PREGATE, FRATELLI”
si rispondeva e si risponde tuttora, perché il testo è rimasto
immutato — riferendosi alla Messa celebrata come
“sacrificio”, cosa intollerabile per Kiko, come esamineremo fra
poco (p. 328);
Ai tre accenni di Pio XII rispondono altrettanti pregiudizi di Kiko:
il primo riguarda l’assoluzione nel sacramento della penitenza
(p. 176);
il secondo l'essenza del sacrificio eucaristico (p. 292);
il terzo, connesso col precedente, la veglia pasquale (p. 331).
Dovrò tornare sui singoli argomenti.
Non ricorda altro Papa; né cita uno solo degli innumerevoli
documenti del magistero pontificio, cosa che gli sarebbe
stata sempre possibile aggiornando i suoi Orientamenti;
b) dei 21 Concili ecumenici, Kiko ricorda soltanto quello di
Trento e il Vaticano II. Il III Sinodo di Toledo (p. 172) è
interpretato secondo un'ottica errata, come vedremo trattando
della confessione. — Compongono un vero panegirico
le numerose pagine dedicate al Vaticano II (pp. 67ss, 73, 81,
316, 326, 327, 332, 334, 335, 348, 349, 350, 351). Ma le sue lodi sono
sospette:
— sia perché ne interpreta i documenti secondo le sue idee, e
quindi spesso travisandone il senso, come abbiamo potuto
constatare a proposito del «dogma della Redenzione” (p. 67);
— sia perché contrappone incautamente il grande Concilio di
Trento al Vaticano II: questo d'ispirazione pastorale, che
non ha inteso definire nulla di nuovo a livello dogmatico, per
cui, assolutamente parlando, potrebbe subire ritocchi più o
meno profondi (Giovanni XXIII, Disc. di apertura, 11.10.1962);
quello di spiccata indole teologica, con definizioni solenni e
anatemi senza appelli.
Ciò che, in Kiko, rende sospetti gli elogi del Vaticano II è la
stizza con la quale si scaglia contro il Concilio di Trento.
— Secondo lui, per merito dell'uno “siamo usciti
dall'immobilismo, quasi totale” dell’altro (p. 174);
— «con iI Concilio di Trento, e dal XVI al XX secolo, tutto
rimane bloccato...” (p. 174);
— «a Trento si punta tutto sulle essenze, sulla efficacia, e si
perde di vista il valore sacramentale del segno...” (p. 175);
— «con il Concilio di Trento, nel XVI secolo, si fissa tutto
rigidamente, imponendo in modo radicale il rito romano. Con
questa imposizione oramai non si può più togliere o
aggiungere nulla dalla Messa. Così la Messa è arrivata fino a
noi” (p. 325);
— «dopo il Concilio di Trento siamo rimasti con le essenze e le
efficace [sic!] disconoscendo il valore dei segni” (p. 327).
Presto vedremo perché Kiko non tollera le definizioni di Trento; ma
è lecito chiedersi subito come egli possa salvare “il valore dei
segni”, senza sottolineare quello dei “contenuti” ossia delle
“essenze”. In realtà egli non accetta quel Concilio, come non
l’hanno potuto tollerare tutte le sétte protestanti rimaste
colpite dal suo magistero; magistero che la Chiesa Cattolica
ritiene infallibile, irrevocabile. È difficile persuadersi che il
fondatore carismatico del M.N. si senta sinceramente e
incondizionata-mente «figlio» di tale Chiesa.
c) Come stenta a citare Papi e Concili, così ricorda assai
raramente quegli autorevoli organi della Rivelazione che sono i
Padri e i Dottori della Chiesa:
— a p. 363 riporta un breve passo della Didachè, col quale
pretenderebbe dimostrare la verità della sua concezione sulla
non-violenza;
— a p. 34 esalta il primato della carità citando S. Policarpo, che
però non scrisse una lettera agli Efesini, ma ai Filippesi;
— rapidissimo il cenno a Tertulliano a proposito del suo
rigorismo nella disciplina penitenziale (p. 169); e anche fugace
quello a S. Agostino (p. 170), a S. Gregorio di Tours (ivi), a S.
Giovanni Crisostomo (p. 355); dove però parlando della
necessità dello «sforzo» nel praticare la virtù, sembra che
contraddica quanto afferma altrove (pp. 163, 168).
— Dei teologi del passato, piccoli e grandi, non una parola,
neppure di S. Tommaso, principe dei teologi...; aperta anzi, in
Kiko, la diffidenza e persino il disprezzo per tutti, come quando
ironizza sui loro «dibattiti» a proposito dell’Eucaristia, e in
generale dei loro trattati (pp. 74, 251. 264; 325; 326, 329).
Di questo suo atteggiamento può darsi soltanto una spiegazione:
Kiko è sufficiente a se stesso; non ha bisogno di apprendere
quel che la Chiesa ha insegnato da duemila anni; il suo
Magistero non conta; di esso vale soltanto quel che in qualche
modo conferma le sue idee, gli dà ragione... Un protestante non
avrebbe potuto esprimersi diversamente. Egli non mostra di
credere nella Chiesa-Istituzione gerarchica. Ecco tutto. È
l'impressione - sempre più chiara e ferma - che si ricava dalla
meditata lettura dei suoi Orientamenti ... Ma c'e di più.
IX
PER SALVARSI BASTA CREDERE
NELLA MISERICORDIA DI DIO
LA CHIESA GERARCHICA, OLTRE A CONFERIRE IL BATTESIMO AI NON
CRISTIANI, CONCEDE IL PERDONO DI DIO AL FEDELI CHE, CADUTI IN
PECCATO, SE NE PENTONO, SE NE ACCUSANO, PROMETTONO DI EMENDARSENE
E DI RIPARARLO CON LA PENI-TENZA. L'ASSOLUZIONE SACRAMENTALE
COSTITUISCE L'ELEMENTO-ESSENZIALE-SPECIFICO, PER IL
QUALE CRISTO, NEI SUOI MINISTRI, RICONCILIA IL PECCATORE CON
DIO ED IL PROSSIMO.
Ma, al riguardo, le riserve di Kiko sono molte e gravi. Per
rilevarle, dobbiamo fare un passo indietro.
§ 1 - Problema del peccato
Onestamente, riconosco che Kiko afferma verità sacrosante
quando dice che «l’uomo esiste perché Dio lo ama; Dio dà
l'essere all'uomo amandolo” (p. 49). Almeno in questo, egli
accetta la dottrina di S. Tommaso (cf. S.th., I, q. 20, a. 2; q. 23,
a. 3, 1um; 1-II, q. 110, a. 1; S.c.G., I, c. 91, III, c. 150, ecc.). Non è
meno vero che il Demonio ha indotto l'uomo a peccare
facendogli credere il contrario: appunto la catechesi del
Maligno (p. 49). Ora, non credendo in un Dio che, amando,
crea, «l'uomo si sente completamente perduto (...). La
renza fisica si converte in un simbolo che annunzia la distruzione
della sua realtà totale” (ivi). Certamente «Dio non si è ritirato
dall'uomo, perché, se così fosse, l'uomo morirebbe subito” (p.
50). Esatto anche questo. In conclusione: «È l'uomo che si è
separato da Dio, che ha accettato la catechesi del Maligno
peccando...” (p. 50).
È qui che dobbiamo chiederci:
1° l'uomo, non credendo né accettando l'amore di Dio, Lo ha
offeso? Abbiamo già notato che, secondo Kiko, l’uomo
peccando, non può offendere Dio …;
2° i progenitori hanno potuto peccare realmente separandosi
da Dio? Se non fossero stati pienamente consapevoli e liberi,
non avrebbero potuto peccare. Ma di ciò Kiko non parla;
mentre
3° è eloquentissimo nel descrivere le conseguenze della prima
colpa, dichia-rando - come sopra ho rilevato - che l’uomo si
trova nella deplorevole condi-zione di non poter fare il bene, di
non essere libero di evitare il peccato. Ed è a questo punto
che si pone il problema del «nostro” peccato.
Come si può parlare del sacramento della penitenza senza
supporre il pec-cato? E com'è possibile il peccato, se l’uomo
non può non commetterlo, data la sua natura radicalmente
guasta? Che senso può avere, dunque, il pentimento, il
proposito di emendarsi, l'accusa, l’assoluzione del confessore?...
Il rilievo è di un'evidenza che abbaglia... Se l'uomo,
peccando “non può fare altrimenti. E non ne ha colpa…” (p. 43),
Kiko obbliga a rimettere in questione premesse fondamentali
riguardanti i principi costitutivi della «persona umana”, la sua
intelligenza, la libertà, il senso della responsabilità, la moralità
del suo comportamento... Egli può insi-stere fantasticando
unicamente con Lutero che il peccato originale avrebbe
corrotto irreparabilmente la natura umana... Ma se si professa
ancora «cattolico” dovrebbe accettare il magistero di Trento
che sostiene il contrario.
Ora, è di fede, che, nonostante le nefaste conseguenze della
colpa dei progenitori (D-S 1512, 1521), l'uomo ha conservato la
sua libertà, la quale non è affatto un'invenzione di Satana (DS
1555); per cui può ancora compiere azioni naturalmente
oneste (D-S 1557, 1575). Se ciò non fosse vero:
— egli dovrebbe comportarsi come un burattino, per cui sarebbe
incapace di resipiscenza, di conversione, di redenzione...;
— ma in tale ipotesi, l'opera restauratrice di Cristo sarebbe
stata inutile, perché la sua grazia può operare soltanto in
soggetti capaci di assecondarla coscientemente e liberamente.
§ 2 - Grazia del perdono, conversione, espiazione
Soltanto se cosciente e libero, l'uomo si può convertire: il suo
ritorno a Dio non può essere forzato, estorto con la violenza. Egli è
insostituibile. Dio, per quanto voglia essere misericordioso, non
può concedere un perdono che l'uomo rifiuta. Ma questo è un
discorso privo di senso per Kiko, secondo il quale sembra che
Cristo, risorgendo, faccia t u t t o , senza che l’uomo faccia
nulla con Lui. “La conversione non è mai uno stringere i
denti, uno s f o r z o dell'uomo”. Essa è «un dono di Dio, una
chiamata di Dio, una iniziativa, di Dio … (p.163). La conversione non
può essere mai «come quacosa che si ottiene con i propri sforzi
…” (p. 168).
Tutto ciò è ambiguo, perché anche la Chiesa insegna che Dio
previene con la sua grazia, senza la quale l'uomo non potrebbe
cominciare a far nulla. Essa, se continua a sostenere la
volontà umana, non lascia però questa inerte; e ciò spiega
come si debba parlare non solo della «grazia operante”, ma
anche di quella “cooperante”, che implica l'attivo impegno
della creatura (cf. II Conc. di Orange, D-S 379; S. AGOSTINO, De
gratis et lib. arb., c. 17, n. 33, PL 44, 901; S. Tommaso, S. th., q. 111, a. 2;
De Veritate, q. 27, a. 5, 1um).
Approfondendo l'indagine, da Kiko si apprende che convertirsi
“non è pentirsi del passato, ma mettersi in cammino verso il futuro”
(p. 166s). Ma, dopo aver offeso Dio, è lecito non pentirsene?
Rimettersi in cammino verso il futuro, se equivale a cambiare
rotta, sforzandosi di evitare delle ricadute, va bene. A questo
punto però il nostro teologo ci fa perdere ogni pista: tutto secondo
lui sarebbe operato dal Cristo. Infatti, il passato sarebbe distrutto
dalla sua morte: Egli,risorgendo, dona il suo Spirito e quindi la
nuova vita, il perdono dei peccati (cf. p. 130-40).
Ma la morte di Cristo come può distruggere il nostro passato?
Ce lo spiega Kiko: “Se siamo stati creati ad immagine e
somiglianza di Dio, se Lui è morto per i nostri peccati, ANCHE NOI
SIAMO MORTI PER I NOSTRI PECCATI (...). Se Egli ha occupato il tuo
posto ed il mio, ed è stato messo nella fossa al nostro posto, e il Padre
lo ha risuscitato, ha risuscitato anche noi. Perché l'ha risuscitato come
pegno, come garanzia che i tuoi peccati sono perdonati, che
abbiamo accesso alla vita di Dio, che ora possiamo nascere da
E ancora: «La morte e il peccato sono stati vinti nella morte e
risurrezione di Gesù Cristo che, nella sua carne, ha sepolto e distrutto
il corpo di peccato (...). Se un uomo è stato risuscitato dalla morte,
vuol dire che il peccato è stato perdonato (...). Egli è risorto per
primo per giustificare tutta l'umanità, per mostrare a tutti gli uomini
che la morte è stata perdonata a tutti, perché il peccato è stato
perdonato...” (p. 143s).
Insomma, «in Cristo Dio inaugura una nuova creazione, fa una
nuova umanità” (p. 144).
Ma qui, purtroppo, il travisamento di ben noti e
commentatissimi testi paolini ci offre un Cristianesimo del tutto
sconvolto, degno soltanto di una fantasia sbrigliata, nutrita di
una cultura teologica irrimediabilmente inquinata da evidenti
infiltrazioni luterane.
Omettendo altre considerazioni, il punto vulnerabilissimo della
ricostruzione kikiana si riduce a questo: mentre si esalta
l'iniziativa della Grazia, si nega la necessità della
corrispondenza dell’uomo; al quale Dio risparmia ogni sforzo,
ogni rinuncia, ogni rinunzia, ogni sacrificio come amorosa e
indispensabile partecipazione all'Offerta cruenta della Croce.
Infatti — sostiene Kiko — «Gesù Cristo è venuto a soffrire perché
tu non soffra; è venuto a morire perché tu non muoia: Lui sì che
muore, tu no; in modo che ti si regala gratuitamente la vita, a te
e all'ultimo disgraziato della terra, al più peccatore, al più vizioso,
“all'assassino”, a chiunque sia si regala una vita eterna” (p. 222).
§ 3 - La fede che salva
A questo punto, richiamando l'esempio di Abramo — che
credette alla promessa e meritò di esser premiato per la sua
giustizia Kiko ancora una volta lascia trapelare in modo
inequivocabile la teologia luterana della fede che salva
senza le opere, dipendendo tutto dalla Grazia, non potendo
nulla una natura radicalmente corrotta: «Tu sarai gloria a
Dio, se credi che Dio può fare di te, che sei un peccatore,
lussurioso, egoista, attaccato al denaro, un figlio di Dio, che
ami come Gesù Cristo. Credi tu questo? Questo lo farà Dio, non
tu. Per questo il Cristianesimo è una buona notizia per i poveri e i
disgraziati. II cristianesimo non esige nulla da nessuno, regala
tutto...» (p. 222).
Ciò è logico, ripeto, una volta ammesso che “l'uomo non può
fare il bene (p. 130); che Cristo non è un Modello di vita da
doversi imitare (p. 125 s); che «vivere in grazia è vivere la
gratuità di Dio che ti sta perdonando con il suo amore,
e credere in questo perdono e in questo amore costante di Dio
(...) I cristiani (...) sanno di essere peccatori davvero ed hanno
sperimentato in questo peccato la misericordia di Dio che
perdona e dà una vita nuova, frutto della sua grazia» (p. 190).
L'eloquenza di Kiko nel ribadire gli stessi concetti sembra
quasi inesauribile! “Dio misericordia ed amore» (p. 62).
Per superare “tutta la religiosità naturale (...) basata sul timore»,
basta crederlo: «avere questa fiducia in Dio»; la “fiducia
assoluta che Dio ti ama” (p. 62). «Se è vero che Dio ha
generato Gesù Cristo dentro di te», «hai ricevuto il dono di Dio:
misericordia, vita eterna, perdono...» (p. 67). L'accordo col
principio luterano è perfetto: «La fede nella salvezza è la
salvezza”. «Non è giusto colui che opera molto, bensì chi, senza
operare, crede molto in Cristo». [«Non ille iustus est qui multum
operatur, sed qui sine opere multum credit in Christum”, (LUTERO,
Tesi XXV della Disputa di Heidelberg, 25 aprile 1518)].
Perciò, “qual è la notizia che dà la Chiesa? Che Gesù Cristo è
risorto dalla morte, che noi non moriamo. Perché siamo stati
inseriti nel Corpo vivo di Gesù Cristo Risorto...» (p. 86s); ossia
nella Chiesa, la quale “salva tutti (...). La Chiesa salva tutti,
perché perdona tutti. E se essa è Cristo e Cristo è Dio, è Dio
stesso che ha perdonato loro. La Chiesa non giudica, non
esige, bensì salva, cura, perdona, risuscita e tutto ciò lo fa
facendo presente l'escatologia...» (p. 90).
* * *
Enormi le implicazioni di tale concezione della misericordia di
Dio: non mancherò di trattarne a suo luogo. Ora, per mettere
un po' d'ordine in questo groviglio di idee, preferisco limitarmi
ai seguenti rilievi:
a) Partendo dal presupposto che il peccato non “offende Dio”,
Kiko immagina Dio tutto Bontà, Amore, Misericordia che dona;
mai Giustizia che esige nell’attesa di una risposta di amore da
parte dell'uomo. Egli però non riflette che in Lui l'esigenza della
Giustizia è comandata da una volontà di Misericordia,
finalizzata dal trionfo del suo amore sulla protervia umana,
provvedere al proprio vero bene solo amando Dio sopra se
stesso...;
b) Dio, se non trattasse l’uomo secondo giustizia – e quindi
valendosi solo della sua misericordia —, non rispetterebbe la
sua dignità di persona, ossia di soggetto autonomo, attivo,
incapace di godere realmente di un qualsiasi bene come
«proprio” che non sia da lui liberamente voluto per acquistarlo
o ricuperarlo. Con l'uomo-persona la misericordia di Dio non
può non essere ineffabilmente giusta (cf. S. TOMMASO, S. th., III,
q. 46, a. 3; Comp. th., c. 201; Sent. III, d. 20, a. 1, sol. 2; op. De
Rationibus fidei, c. 5).
c) Kiko, per quanto si sbracci a celebrare la misericordia di Dio,
dimostra di non aver neppure intravisto il mistero dei rapporti
della grazia col libero arbitrio della creatura. La sua
interpretazione è irrimediabilmente unilaterale: l'esaltazione
della bontà di Dio è fatta solo a spese della dignità dell’uomo
…
d) Egli non dice che alla coscienza di essere dei peccatori i
cristiani hanno sempre associato la sublime esperienza del
dolore di aver offeso Dio e imposto a se stessi quanto quel
dolore ha sempre suggerito di più eroico per una profonda e
definitiva rinascita in Lui nel Cristo crocifisso e risorto.
e) In un Cristianesimo:
α) che crede soltanto nell'amore e nella misericordia di Dio
che tutto perdona, e nella morte e risurrezione di Cristo che per
tutti muore e risorge ridonando loro la sua vita, non c’è posto
per la penitenza o «conversione» vissuta come dispiacere di
aver offeso Dio e sforzo personale di ripresa interiore...;
β) che arriva ad ignorare il peccato quanto alla sua
dimensione verticale di ingiustizia-commessa-contro-Dio, non è
possibile concepire il dovere di rendere a Lui quel che è suo,
nella cordiale ri-affermazione del suo assoluto dominio; per cui
non c’è posto per quella soddisfazione costituita
essenzialmente dalla “passione dell’anima” (“cor contritum et
humiliatum”), che implica la disposizione a rinunziare a tutto, a
morire a se stessi...
* * *
Co n c l u d e n d o: il lato più oscuro; ingarbugliato e inquietante
della teoria di Kiko resta la sua contraddittoria
nozione del peccato, il quale:
α) se non è “offesa di Dio», è nulla; per cui è inspiegabile —
almeno secondo la fede — la serie delle sciagure umane
culminanti con la morte, avente la sua esclusiva radice nel
rifiuto di Dio...;
β) se il peccato non si riduce a questo “rifiuto”, è vano parlare
della sua intrinseca malizia morale...;
γ) al peccato non può attribuirsi tale intrinseca malizia morale,
non si spiega né l'aberrazione né la conversione dell'uomo,
dipendendo l'una e l'altra dalla caduta), e dalla «ripresa”, della
medesima volontà libera …;
δ) in tale ipotesi, se l'aberrazione non è colpevole, per cui non
provoca la giustizia di Dio...; la conversione non è meritoria, per
cui non dipende dalla sua misericordia.
In che cosa consiste dunque l'opera di Cristo a favore dell'uomo?
Se non gli conferisce la grazia di un rinnovamento
interiore ch'è riconciliazione con Dio, ritorno alla sua intimità,
fondata speranza del suo eterno possesso nella gloria, di cui
Kiko non parla...; resta soltanto, secondo lui, il beneficio di
partecipare alla risurrezione fisica del Salvatore... Ma egli non
riflette che la rianimazione del corpo senza la divinizzazione
dell'anima è inutile, anzi impossibile...; divinizzazione dell'anima
che sottende una conversione morale che Kiko rende assurda,
ostinandosi a parlare di una volontà umana incapace di volere
il bene e di evitare il male.
X
«LA CHIESA PRIMITIVA
NON EBBE LA CONFESSIONE...”
NELLA CHIESA, IL PERDONO DEI PECCATI È CONCESSO DA DIO, PER I
MERITI DELLA PASSIONE E MORTE DI CRISTO, AL FEDELE IL QUALE,
PENTITO DEI SUOI PECCATI, LI CONFIDA AL CONFESSORE, DECIDE DI
CAMBIARE VITA, CHIEDE E OTTIENE L'ASSOLUZIONE SACRAMENTALE.
Ancora una volta Kiko dissente dalla Chiesa Cattolica. La
gravità e il numero delle sue asserzioni questa volta obbligano
ad un'analisi critica che offre il vantaggio di seguire con
assoluta aderenza il testo incriminato, anche se l'ordine dei
rilievi non è esemplare dal punto di vista teologico storico:
a) Saltando a pie’ pari i notissimi testi del N. Testamento sul
potere di rimettere i peccati conferito da Gesù unicamente
agli Apostoli (Gv 20, 23; Mt 16,19; 18,18), egli ignora del tutto
quanto ne affermano i Padri dei primi secoli: «La Chiesa
primitiva non ebbe la confessione (...) come l’abbiamo noi
oggi” (p. 164). Quale confessione abbiamo oggi? Noi - da
sempre - alla “conversione» operata per la Grazia aggiungiamo
l'“assoluzione” del ministro di Dio, da cui dipende “il
perdono dei peccati”. Ma Kiko non accetta.
* * *
b) È ambiguo affermare che la “conversione non ha mai un
senso moralista e volontarista”, essendo “essenzialmente un
cambiamento di mentalità, un cambiamento di direzione” (p.
165). Una mentalità cambia soltanto se riferita ad una
determinata cosa, prima amata e poi odiata, o viceversa...
Solo così intesa, la volontà cambia direzione, alludendo
precisamente a quel «contenuto-termine che si riassume in Dio
e in ciò che Egli comanda e proibisce..., almeno se si vuol dire
qualcosa di concreto quando si ripete che “la conversione » è
sempre «mettersi di fronte a Dio» (p. 165); altrimenti si cade nel
v u o t o della tendenza vaga o velleità, della direzione senza
un termine, di un atteggiamento assurdo...
* * *
c) Con ostentata sicurezza Kiko dichiara che “i valori essenziali
del sacramento della penitenza sono la situazione esistenziale
del peccato, Dio non è rimasto indifferente, ma è intervenuto,
prendendo l'iniziativa e aprendo un cammino di salvezza e di
conversione per il popolo» (p. 166).
Magistero e teologia cattolica si sono sempre espressi
diversamente:
− La situazione del peccato, e poi l’iniziativa della grazia (che
stimola il processo della conversione) precedono, non
costituiscono il sacramento della penitenza;
− che invece comprende come suoi elementi essenziali sia
l'accusa del peccato, sia il dolore di aver offeso Dio, sia il
proposito di emendarsi e riparare, sia soprattutto, l'assoluzione
del sacerdote, senza la quale è vano sperare il perdono di
Dio, almeno nell'ambito della Chiesa di Cristo...
** *
d) Ma Kiko non cessa di sorprendere con le sue stravaganze,
connesse con quelle sopra segnalate: “la conversione non è un
pentirsi del passato; ma mettersi in cammino in avanti, verso il
futuro... (p. 166). L'espressione è talmente oscura da stimolare a
tornarci sopra, osservando:
chi non si pente può essere solo un ostinato, ossia l'impenitente
che, incapace di perdono, neppure pensa a chiederlo...;
chi non si pente (se non è «ostinato») mostra di non sentirsi
colpevole, per cui non prova alcun rimorso...;
allora però resta qual era, né quindi è stimolato a mettersi in
cammino per una ripresa o cambiamento di rotta...
***
e) E siamo ad uno dei punti nevralgici della “teologia
neocatecumenale”: “La Chiesa primitiva non ha nessuna
esplicitazione del sacramnteo della penitenza che non sia il
battesimo” (p. 167). Ma:
1° innanzi tutto l'affermazione è contraddetta dalla storia della
Chiesa, secondo la quale: peccato, accusa, pentimento,
soddisfazione e riconcili-azione costituivano le fasi di un vero
rito nettamente distinto da quello del b a t t e s i m o, come
attestano gli scritti dei primi secoli: dalla Didachè alla Lettera di
Barnaba; dalla Lettera di Clemente Romano ai Corinzi al
Pastore di Erma; da Tertulliano a Cipriano... Non è il nome che
vale, ma la realtà del rito... Astraendo da varianti del tutto
accessorie e contingenti, l’essenziale in cui tutti convengono è
il potere di rimettere i peccati commessi dopo il battesimo,
esercitato dal vescovo o dal presbitero...
2° Kiko evidentemente ritiene che soltanto il battesimo risale
alle origini, mentre il sacramento della penitenza — distinto dal
battesimo — farebbe la sua comparsa più tardi e precisarnente
per opera. della Chiesa istituzionalizzata (p. 168).
Siamo appunto all'eresia luterana, condannata a Trento, dove
alla distinzione tra i due sacramenti si dedica un intero capitolo
(D-S 1671ss), seguito dall'anatema contro chiunque ipsum
baptismum paenitentiae sacramentum esse dixerit...» (D-S
1702).
3° Si spiega perciò come la preoccupazione di riscoprire il
«catecumenato» e potenziare il senso e l'efficacia del battesimo
induca ad eliminare la penitenza come sacramento da
esso distinto.
Kiko si oppone alla Chiesa Cattolica anche su questo punto:
per lui le definizioni di Trento non hanno alcun valore, come per
ogni buon protestante.
Tutto ciò è comprensibile, se alla Chiesa — ridotta ad una
società “carismatica» — si nega ogni dimensione giuridica» (p.
167); e se si sostiene che in essa il sacerdozio è unico: quello
comune al clero e ai fedeli (p. 67).
** *
f) Sopra ho rilevato che Kiko, ignorando il peccato come
«offesa di Dio”, nega anche dovere di espiarlo col sacrificio.
Ora resta da riflettere su di un particolare estremamente grave,
volto ad eliminare del tutto l'entità del peccato, il quale
avrebbe una “dimensione s o c i a l e, mai individuale» (p.
167).
A parte le osservazioni che potrebbero farsi dal punto di vista
metafisico sul primato della PERSONA rispetto alla società, al
gruppo, alla massa, ecc., per confutare uno strafalcione del
genere basta meditare le parole di Giovanni Paolo II:
“Il peccato in senso vero e proprio, è sempre un atto della
persona, perché è un atto di libertà di un singolo uomo, e non
propriamente di un gruppo o di una comunità (...). una verità di
fede, confermata anche dalla nostra esperienza e ragione,
che la persona umana è libera. Non si può ignorare questa
verità, per scaricare su realtà esterne - le strutture, i sistemi, gli
“altri” - il peccato dei singoli. Oltre tutto, sarebbe questo un
cancellare la dignità e la libertà della persona, che si rivelano
— sia pure negativamente e disastrosamente — anche in tale
responsabilità per il peccato commesso. Perciò, in ogni uomo
non c'è nulla di tanto personale e intrasferibile quanto il merito
o la responsabilità della colpa» (Reconciliatio et paenitentia,
16).
* * *
g) Eliminata l'iniziativa e la responsabilità personale del
peccato, Kiko può escludere tranquillamente l’iniziativa e la
responsabilità personale della conversione: Sarebbe la
“Chiesa” infatti che, “per un lungo periodo gesta la
conversione nel catecumenato, senza che mai si consideri la
conversione come qualcosa che si ottiene con i propri sforzi;
ma come un dono, un'opera che Dio fa attraverso la Chiesa
che gesta la conversione. La conversione del penitente
dipendeva dalla preghiera della Chiesa e dalla gestazione alla
conversione che si operava nuovamente in lui. Perché è
fondamentale, in questa esclusione che si fa del penitente, la
parteci-pazione comunitaria della Chiesa...”. “Cioè: il valore
essenziale, di questo tempo, del sacramento della penitenza, è
quello comunitario, ed eccle-siale, perché è la Chiesa che
gesta e conduce alla conversione …” (p. 168).
Qui però la manipolazione delle idee e dei fatti è così grave
che potrebbe scoraggiare qualsiasi teologo e storico della
penitenza:
1° Il peccatore, che chiede e si prepara a ricevere il perdono
delle sue colpe, si presume sia già “convertito»: in lui la resa alla
grazia — nel pentimento e nella volontà di riparare al passato
— è un fatto compiuto che precede il periodo della penitenza
canonica e il desiderato momento del suo ritorno alla
comunione dei fratelli. In breve: la Chiesa aiuta il fedele a
compiere la penitenza e prepararsi alla assoluzione, non a
“convertirsi» nel senso profondo della sua riconciliazione con
Dio implicante la personalissima conversione interiore.
2° Purtroppo l'esagerata sottolineatura del carattere
“comunitario ed ecclesiale» della “conversione» fa perdere di
vista la figura del Vescovo quale Pastore della Comunità, unico
vero rappresentante di Cristo in virtù dell'Ordine sacro che
distingue essenzialmente il sacerdote dal laico, distinzione che
Kiko rigetta (p. 56-57).
3° Tanto vero che, secondo lui, “l’importante non è l'assoluzione...
» (p. 168): appunto quella del Vescovo e della quale
la Comunità era semplicemente “testimone»... Come può non
essere importante l'atto di assolvere, ossia di rimettere i peccati,
senza negare la stessa facoltà di concedere il perdono di Dio,
a cui risale la prima istituzione della penitenza da parte di
Cristo?... Kiko sarebbe più leale se respingesse apertamente il
magistero dei Concili di Firenze e di Trento a proposito
dell'assoluzione indicata come elemento-essenziale-formale del
sacramento della penitenza (D-S 1323; 1673, 1704).
* * *
h) Segue una filza di manipolazioni storiche e impertinenze
imperdonabili:
1° è falso che nel VI secolo “comincia ad essere necessario
dire i peccati...» (p. 171). L'accusa dei quali richiama una prassi
antichissima perché ritenuta sempre indispensabile...;
2° è indice di malanimo ritenere «divertentissimo vedere le liste
delle espiazioni» (ivi), come se queste non fossero suggerite
dalla sapiente preoccupazione di proporzionare le pene alla
gravità delle colpe... Sa di anticlericalismo la sciocca voglia di
ridicolizzare «la confessione tariffata”, presentandola agl'ignari
sotto l'aspetto meno felice, mentre se ne occulta il senso giusto:
quello di un metodo pastorale che, a suo modo, illuminò
confessori e penitenti di un certo periodo storico, pur se non
mancarono gli abusi, che la Chiesa non tardò a condannare e
sopprimere.
3° È teologicamente errato affermare che «il perdono non era
un'assoluzione, ma una riconciliazione con tutta la comunità
mediante il segno della riammissione aIl'assemblea in un atto
liturgico ecclesiale” (p. 173). “Il perdono è concepibile solo
come “remissione dei peccati”, per la quale il peccatore si
riconcilia innanzitutto con Dio per la sentenza che soltanto il
Vescovo, quale suo ministro, ha il potere di formulare, e
non già l'assemblea. L'abbiamo accennato sopra.
4° Definire “stupidaggini” (p. 172) i peccati veniali - che
comincerebbero ad essere materia di confessione verso il VI
secolo - significa irridere una prassi degnissima di rispetto,
anche perché indice di una crescente sensibilità spirituale dei
fedeli …
5° Di tipo spiccatamente «protestante” è il pregiudizio di Kiko
secondo il quale - così pare da tutto l'insieme - la vita della
Chiesa primitiva sarebbe stata la sola i d e a l e, per cui ciò
che essa non conobbe né praticò (perché dovuto ai secoli
posteriori) significherebbe un regresso, come appunto la
prassi della «confessione molto frequente» (p. 173).
* * *
i) Non c'e chi non possa definire teologicamente e storicamente
errata, ingiusta, irriverente e gravemente offensiva per la
Chiesa la seguente astiosa raffica del profeta spagnolo:
1° “I Francescani e i Domenicani estendono dappertutto la
confessione privata come una devozione...» (p. 173), mentre
sappiamo che essa risale a parecchi secoli prima, in Oriente e
in Occidente...;
2° si deplora la confessione fatta “per la santificazione
personale, cosa che giungerà fino ai nostri giorni” (p. 173), come
se la santificazione personale non fosse lo scopo dell'intera
liturgia cattolica e il massimo contributo che ciascuno possa
dare alla crescita del Corpo Mistico...; come se i Santi fioriti
dalla Controriforma fino al Vaticano II non fossero degni della
venerazione più sincera...
3° Solo l'ignoranza e il malanimo hanno potuto suggerire: «Fa
quasi ridere pensare che è necessaria la sola attrizione se ti
vai a confessare; e la contrizione se non ti confessi. Vedete bene
che cosa rimane della conversione...» (p. 174). Kiko presume di
dar lezioni di teologia e antropologia soprannaturale ai Padri
del Concilio di Trento, che appunto spiegano come e perché l'
at t r i z i o n e basti per ricevere l'assoluzione del confessore (DS
1677-8). Lutero non si sarebbe espresso diversamente...
Ed e quasi incredibile quel che aggiunge ridicolizzando il
decreto col quale il Concilio Lateranense IV ordina di confessarsi
ogni anno e far la comunione almeno a Pasqua (p. 174.
Cf. D-S 812).
4° Siamo all'attacco frontale contro il Concilio di Trento. Con e
dopo questo, “tutto rimane bloccato” (p. 174). Perciò appaiono
i confessionali (...), si comincia a generalizzare la forma della
confessione privata, medicinale e di devozione (...). Non r i d e
t e perché l'abbiamo vissuto anche noi. La confessione come
mezzo di santificazione personale, così come la direzione
spirituale [che risale nientemeno a Origene e Clemente di
Alessandria], tutto fa parte del cammino della perfezione.
«Chi mette confessionali dappertutto è san Borromeo. Con
dettagli che riguardano anche la grata, ecc. adesso
comprendete che molte delle cose che diceva Lutero avevano
un fondamento …” (p.174).
Basta rilevare che un cattolico - anche spiritualmente e
culturalmente mediocre - non si sarebbe mai espresso in questi
termini...
5° Ed ecco la spiegazione dell'attuale crisi della confessione: LA
FEDELTÀ DEL POPOLO CRISTIANO ALLA DOTTRINA DI TRENTO. «Non
appare da nessuna parte il processo penitenziale né il
processo sacramentale (certamente secondo le idee di Kiko,
mistificatore abilissimo!]. Per questo, e anche perché l’umanità
oggi cammina verso visioni sociali e comunitarie del peccato e
non legaliste, capite come la pratica della confessione sia in
crisi. E per questo la gente si comunica tranquillamente senza
confessarsi” (p. 175).
Ma la vera diagnosi della “crisi della confessione” è ben
diversa, dovendosi questa attribuire:
α) al processo di laicizzazione del mondo contemporaneo,
precipitato nei gorghi dell'umanesimo materialistico ed ateo;
β) al fenomeno di scristianizzazione che, umanizzando la
Persona divina di Cristo, ha storicizzato il suo messaggio, la sua
opera, la sua civiltà...;
γ) all'apostasia dalla Chiesa Cattolica, fino a ieri — nella rupe di
Pietro — unica e inespugnabile fortezza di difesa contro lo
scetticismo (che dubita di ogni verità), la miscredenza (che
rifiuta “il sacro”), il relativismo etico (che ignora e calpesta ogni
norma assoluta di condotta);
δ) all'opera dissolvitrice di teologi insofferenti del Magistero...; al
tradimento di molti sacerdoti apatici, disinformati, indolenti,
secolarizzati in tutto; che perciò scoraggiano i penitenti,
discreditano la confessione...;
ε) alla nefasta e subdola influenza dell'indirizzo di Kiko e delle
sue “comunità neocatecumenali”... Cosa si sarebbe potuto
sostenere di più ereticale contro il sacramento della penitenza
quale soprattutto dal Concilio di Trento in poi è stato inculcato
dal Magistero?...1
Il nostro “profeta” ignora che lui — non certo la Chiesa —
“cammina verso visioni sociali e comunitarie del peccato”. Tutti
oggi - ripudiando ogni tipo di “comunitarismo” livellatore e
soffocante — tendono verso una concezione personalistica e
democratica, la quale, nella sua apertura agli “altri”, afferma e
difende il primario e irrinunciabile valore del singolo, sia in sé
che soprattutto davanti a Dio...
1Dunque, parole cadute nel vuoto quelle del Papa, col quale
Kiko suole mostrarsi tanto tenero e generoso: «La vostra disponibilità all'appello
divino si manifesti nel realizzare, giorno dopo giorno, la parola esigente di
Gesù: “Convertitevi e credete al Vangelo” (Mc 1,15). Questa conversione,
questo “cambiamento di mentalità” è anzitutto rifiuto del vero male, il
peccato che ci allontana da Dio. Questa conversione è un continuo cammino
di ritorno alla casa del Padre, come quello del figliol prodigo (cf. Lc 15,11-32). Questa
conversione trova il suo segno salvifico nel Sacramento della Penitenza o della
riconciliazione. “La libertà dal peccato — ho scritto nella Bolla di indizione del
Giubileo per il 1950° anniversario della Redenzione — e... frutto ed esigenza
primaria della fede in Cristo Redentore e nella sua Chiesa... A servizio di questa
libertà il Signore Gesù ha istituito nella sua Chiesa il Sacramento della Penitenza,
perché coloro che hanno commesso peccato dopo il Battesimo siano
riconciliati con Dio che hanno offeso, e con la Chiesa stessa che hanno
ferito” (Bolla «Aperite portas”).
“Il ministero della Riconciliazione - questo dono mirabile della infinita
misericordia di DIO È AFFIDATO A VOI SACERDOTI. SIATENE M I N I S T R I SEMPRE
DEGNI, PRONTI, ZELANTI, DISPONIBILI, PAZIENTI, SERENI, ATTENENDOVI CON FEDELE
DILIGENZA ALLE NORME STABILITE IN MATERIA DALL'AUTORITÀ ECCLESIASTICA. I fedeli
potranno così trovare in tale Sacramento un autentico segno e strumento di
rinascita spirituale e di letificante libertà interiore.
“E voi, fratelli tutti, celebrate il Sacramento della Riconciliazione con grande
fiducia nella misericordia di Dio, IN PIENA ADESIONE AL MINISTERO E ALLA DISCIPLINA
DELLA CHIESA, CON LA CON-FESSIONE INDIVIDUALE, COME RIPETUTAMENTE RACCOMANDA IL
NUOVO CODICE DI DIRITTO CANONICO, per il perdono e la pace dei discepoli del
Signore e come annuncio efficace della bontà del Signore per tutti...” (Disc. del
10 febbr. 1983).
XI
“NELL'EUCARISTIA
NON C’È NESSUNA OFFERTA”
È DI FEDE CHE NELLA CHIESA IL SUPREMO ATTO DI CULTO È LA
CELEBRAZIONE DEL SACRIFICIO EUCARISTICO; OSSIA QUELLO STESSO
DELLA CROCE RESO PRESENTE SOTTO LE SPECIE DEL PANE E DEL
VINO IN VIRTÙ DELLA DISTINTA CONSACRAZIONE DELL'UNO E DELL'ALTRO,
INTERAMENTE MUTATI NELLA SOSTANZA DEL CORPO E DEL SANGUE
DI CRISTO PER IL PRODIGIO ASSOLUTAMENTE UNICO DELLA “TRANSUSTANZIAZIONE”.
PER TALE CELEBRAZIONE, IL SALVATORE HA VOLUTO CHE OVUNQUE E
SEMPRE L'OFFERTA CRUENTA DEL CALVARIO FOSSE “SIGNIFICATA”
QUALE UNICA F O N T E DELLA GRAZIA DISTRIBUITA MEDIANTE I
SACRAMENTI, TRA CUI QUELLO DELLA PENITENZA PREVIA ALLA
COMUNIONE EUCARISTICA, CHE ASSIMILA LE ANIME ALLA VITTIMA
IMMOLATA, PROCURANDO LORO UN PRELUDIO DI VITA ETERNA.
Ma tutto ciò, per Kiko, non ha senso semplicemente perché la
morte di Cristo non p stato un «sacrificio di espiazione», né la
Messa quindi deve considerarsi “il sacra merito” di quel
Sacrificio. Non occorre altro per ritenere Kiko e seguaci esclusi
dalla comunione della Chiesa cattolica e dalla sua liturgia.
§ 1 - Rifiuto del Sacrificio
L'estrema gravità di tal rifiuto obbliga ancora una volta a
tornare indietro per riprendere l'argomento del «sacrificio». Ciò
perché Kiko, coerente con se stesso, in tutti i suoi Orientamenti
scioglie come un inno alla Risurrezione, della quale però il
dogma cattolico tratta in un ben diverso contesto. Basteranno
pochi cenni:
A) Morte e Risurrezione in se stesse
È gravemente inesatto affermare sic et simpliciter che la
Risurrezione rappresenta la fase culminante dell'opera
redentrice:
a - sappiamo che la condizione gloriosa del Cristo risorto è
connaturale al Verbo-Incarnato; il quale, se dal Padre non
fosse stato destinato a morire come vittima dei peccati del
mondo, non avrebbe assunto una natura umana passibile. Ciò
almeno secondo la più comune e ragionata opinione dei
teologi. In altri termini: solo la morte, e una morte espiatrice,
conferisce alla risurrezione un senso, che per se stessa non
avrebbe, trattandosi di una Risurrezione-premio di quella
morte...;
b - infatti, il Verbo ha assunto una natura umana passibile
perché il Cristo (e I'uomo, in Lui e per Lui, suo Mediatore),
sacrificandosi potesse dare la prova suprema dell'amore
dovuto a Dio in espiazione del peccato...;
c - perciò, la gloria della Risurrezione scaturisce dallo schianto
della Morte; di una Morte che, animata dall'Amore, è stata
principalmente espiatrice e conseguentemente «redentrice»:
espiatrice del peccato-offesa di Dio...; e redentrice del
peccato-danno procurato dall'uomo a se stesso;
d - in altri termini: la Risurrezione non solo succede cronologicamente
alla morte; ma è l'effetto della morte in quanto
questa ne è stata la causa meritoria perché morte che, decretata
dall'amore, è stata voluta, attesa e subìta con amore,
trionfante per la supervitale potenza dell'amore (cf. S.
TOMMASO, S. th., III, q. 49, a. 6, c. e 2um; q. 19, a. 3; q. 46, a. 1;
26, a. 6, 21um; Comp. th., c. 240).
Linguaggio, questo, che Kiko non intende, perché derivato da
tutte le fonti della Rivelazione e dalle rispettive definizioni di un
Magistero che egli sembra ignorare o rifiutare.
e) Come mai, d'altra parte, insiste tanto sul fatto della
risurrezione, che per sé, ovviamente, riguarda il corpo …; e non
sottolinea per nulla quella risurrezione dell’anima che, per i
meriti della morte espiatrice di Cristo, rinasce alla vita della
grazia, riconciliandosi con Dio? — Ma anche in questo Kiko è
logico: non dandosi una morte dell’anima dovuta al peccato
come offesa a Dio, rifiuto del suo amore, non si dà neppure
una sua risurrezione a livello morale, come ritorno all'amore,
ripresa dell'amore. Ma, nel caso, a che si riduce l'opera
mediatrice di Cristo? Sospetto che Kiko non ne abbia capito
niente.
B) Morte e Risurrezione nella liturgia eucaristica
Kiko nega che la Messa sia un vero e proprio «sacrificio”,
ritenendolo «il sacramento del passaggio di Gesù dalla morte
alla risurrezione” (p.305). Esso “è memoria della pasqua» (ivi).
«L'Eucaristia è una proclamazione, un kerigma della
Risurrezione di Gesù dalla morte” (p. 308). È «sacrificio di lode,
una lode completa di comunicazione con Dio, attraverso la
Pasqua del Signore” (p. 322).
Ecco perché biasima quanti vedono nella Messa «Qualcuno
che si sacrifica, cioè il Cristo”, il suo Calvario (p. 322).
In breve: “nell’Eucaristia non c’è nessuna offerta” (p. 328).
La Messa è un residuo del culto prestato dai pagani ai loro dei
(pp. 59-60).
Ma è facile obiettare:
a - LE FORMULE DELLA CONSACRAZIONE RIVELANO IL MISTERO DI UN
SACRIFICIO REALISSIMO: il corpo che è dato..., e il sangue versato
indicano l'uccisione di una vittima (Mt 26, 26-28; Mc 14, 22-24;
Lc 22, 19-20). S. Paolo è eloquente: «Ogni volta che mangiate
di questo pane e bevete di questo calice, voi annunziate la
morte del Signore» (1 Cor 11, 23-26). L'Apostolo non parla di
annunzio della Risurrezione.
B - Kiko - contro la tradizione tridentina (p. 325) - esalta il
Vaticano II (p. 67, 327) il quale però lo contraddice apertamente
insegnando che «il nostro Salvatore nell'ultima Cena
(...) istituì il SACRIFICIO EUCARISTICO del suo Corpo e del suo
Sangue, onde perpetuare nei secoli, fino al suo ritorno, IL
SACRIFICIO DELLA CROCE...” (SC 47).
Perciò, i fedeli, «partecipando al SACRIFICIO EUCARISTICO, fonte
e apice di tutta la vita cristiana, offrono a Dio la Vittima
divina e se stessi con essa.... (LG 11 e Pio XII in Mediator Dei, n.
81).
Dal canto loro, i sacerdoti; “agendo nella persona di Cristo»,
“uniscono le preghiere dei fedeli al SACRIFICIO del loro Capo”,
SACRIFICIO del N.T., quello cioè di Cristo, il quale una volta per
tutte offri se stesso al Padre quale VITTIMA IMMACOLATA” (LG 28).
La Messa perciò è «l'oblazione stessa con la quale Cristo ha
confermato nel suo sangue la Nuova Alleanza” (PO 4).
È doveroso quindi per i presbiteri insegnare ai “fedeli a offrire la
Vittima divina a Dio Padre nel SACRIFICIO DELLA MESSA e, in
unione con questa Vittima, l'offerta della propria vita” (ivi 5). I
sacerdoti infatti «soprattutto nel SACRIFICIO DELLA MESSA
agiscono in modo speciale a nome di Cristo, il quale si è offerto
COME VITTIMA per santificare gli uomini... ». «Nel mistero del
SACRIFICIO EUCARISTICO (...) viene esercitata ininterrottamente
l'opera della nostra redenzione.... (ivi, 13).
D u n q u e, a proposito del Sacrificio Eucaristico, a che si
riduce il “rinnovamento molto serio» fatto dalla Chiesa del
Vaticano II quale avrebbe voluto Kiko?... La Chiesa si è limitata
a confermare la dottrina di Trento e — per essa - quella che
risale alla Tradizione Apostolica: per documentarlo,
bisognerebbe aggiungere migliaia di dati tratti dalla letteratura
universale del Cristianesimo...
c) Egli, stando ai documenti del Vaticano II, potrebbe ricordare
che Cristo, nella Messa, ha voluto affidare alla Chiesa
memoriale della sua morte e della sua risurrezione...” (SC 47), e
convalidare la tesi che l'Eucaristia è la “Pasqua», ossia
passaggio dalla morte alla vita, Risurrezione, rito di esultanza, di
lode, di ringraziamento.
Ma, per non equivocare, dobbiamo intenderci:
1° il “mistero pasquale” non indica esclusivamente né la morte,
né la vita, ma il transito di Cristo dalla morte alla vita. Mistero
quindi che comprende indissolubilmente i due momenti
dell'abiezione e della gloria; ossia di un'abiezione finalizzata
dalla gloria; per cui non è possibile pensare alla vera Passione
di Cristo che, intrinsecamente, non sia associata alla
Risurrezione come ritorno alla vita, né ad una Risurrezione che
non supponga la Passione quale sua causa meritoria. La Messa
dunque, che ricorda la morte - e la morte di un Cristo
attualmente risorto e glorioso – celebra il “mistero pasquale»
giustificando numerose espressioni del Vaticano II (SC 6, 47,
106, 108; AG 13; GS 22, ecc.).
2° Ma ciò non contraddice a quanto la più solenne, pacifica e
costante tradizione cattolica ha sempre ripetuto a proposito
del carattere essenzialmente sacrificale della Messa. Per
dimostrarlo, basterebbe solo la notissima quanto provvidenziale
precisazione di Pio XII riguardante l’essenza del Sacrificio
Eucaristico (Mediator Dei, 55-57, in D-S 3847-8). Egli dichiara che
la distinta consacrazione del pane e del vino riproduce
sacramentalmente la violenta separazione del sangue dal
corpo di Cristo, ossia l'immolazione della Vittima divina:
«sacrificatio per externa signa quae sunt mortis indices...”; «...
per distinctos indices Christus Jesus in statu victimae significatur
atque ostenditur”.
3° La Messa, se è il «sacramento del Sacrificio. (cf. S. TOMMASO,
S. th., III, q. 73, a. 3, 3um; q. 79, a. 7, c.), per se stessa richiama l’
i m m o l a z i o n e di Cristo, ossia il suo passaggio dalla vita
alla morte, non già la risurrezione, che è passaggio dalla morte
alla vita...
Soltanto la morte — e una morte ispirata e sostenuta
dall’amore — ha potuto meritare la Risurrezione del Capo e, in
essa, la risurrezione delle membra, intesa come giustificazione
delle anime per la grazia..., e la risurrezione dei corpi alla fine
dei tempi. E anche qui ogni documentazione biblica, patristica,
magisteriale, è superflua. Kiko, ostinandosi nel suo rifiuto del
«sacrificio, sconvolge e vanifica l'intera liturgia cattolica
incentrata nell'altare quale perenne Calvario del Cristo-Vittima.
§ 2 - Negazione della presenza reale
Secondo il Magistero, il Sacrificio Eucaristico è condizionato
essenzialmente dalla presenza reale di Cristo-Sacerdote-
Vittima, derivata dal prodigio della transustanziazione. Perciò,
mancando quella presenza, non si dà alcun “sacrificio”, ma
solo una «memoria» del medesimo, come pensano i Protestanti.
Kiko si spinge oltre, perché arriva a negare anche questa
“memoria», non essendoci stato mai un «sacrificio di
espiazione”. La sua logica - nell'eresia - è impeccabile.
Egli non può sentir parlare di «presenza reale» e ride delle
preoccupazioni della Chiesa come delle ricerche e
controversie dei teologi: “Immaginate – esclama col piglio
dottorale – che ora con i problemi della filosofia cominci ad
esserci un'ossessione sul fatto se Cristo è presente nel pane e
nel vino e come. Vi potrei mostrare discussioni teologiche su
questo problema che fanno ridere (...). La Chiesa cattolica [tale
per lui che non è cattolico?] diventa ossessionata riguardo alla
presenza reale, tanto che per essa è tutto presenza reale...» (p.
329).
Evidente e offensiva l'ironia con la quale richiama «I dibattiti su
come è presente...» (p. 326), quasi che al credente non sia
lecito «pensare, almeno per intravedere la verità di un «mistero»
che deve pur essere «credibile» perché non sia respinto come
assurdo, indegno della ragione umana... Tanto vero che anche
Kiko, negato il mistero della presenza reale, ne propone un
altro non meno oscuro: quello di un Cristo proposto come
«realtà vivente che fa Pasqua e trascina la Chiesa» (p. 329). Ci
voleva la sua fantasia per rifiutare dogmi fondamentali come
quelli a cui accenna...
Non è meno temeraria e irriverente la critica della «parolina
“transustanzlazione” che è parola filosofica che vuole spiegare
il mistero...» (p. 325). «Parolina» tanto poco ridicola che il
Magistero l'ha fatta propria, essendo la sola veramente
espressiva del prodigio (cf. INNOCENZO III, D-S 782; Conc. Later.
IV, D-S 802; Conc. II di Lione, D-S 860; Conc. di Firenze, D-S 1352;
Conc. di Trento, D-S 1642: [«convenienter et proprie a sancta
catholica Ecclesia “transubstantiatio” est appellata”]; ivi, D-S
1652: [«quam quidem, conversionem, catholica Ecclesia
aptissime “transubstantiationem” appellat”]; Pio IV, Prof. fidei,
D-S 1866; BENEDETTO XIV, Prof. fidei, D-S 2535; Pio VI contro il Sin.
di Pistoia, D-S 2629; Pio XII, Med. Dei, D-S 3848; PAOLO VI, Prof.
fidei; Id., Eucharisticum mysteriurn, 3/f).
Falsissimo poi che la Chiesa abbia avuto la presunzione di
«spiegare il mistero” (p. 325); e indisponente la sicumera con la
quale Kiko disprezza il sapere teologico.
A questo proposito, sembra non sappia occultare la propria
sprovvedutezza. Non sa neppure esprimersi quando sentenzia
che «prima si spiegava il dogma in una forma giuridica»,
ignorando che una qualsiasi «forma giuridica» non ha nulla a
che fare con la speculazione teologica, fondamentalmente
metafisica (p. 74).
Mostra di non sapere quel che dice quando afferma che la
nostra concezione della «parola» è «ellenistica e razionalistica”
(p. 251), ignorando la «parola”, della «filosofia cristiana», molto
più esistenziale di quanto ha potuto mai sospettare, non
conoscendo né i Padri della Chiesa né la letteratura teologica
ascetico-mistica di millenni...
Carmen incalza: «Noi veniamo da una mentalità ellenistica per
la quale la “Parola” è logos, idea, pensiero.... (p. 264). Ma
come si può prescindere dall'assoluta positività e concretezza
di quel «Logos» che, appunto perché «Idea», «Pensiero», e da
tutta l'eternita, è «presso Dio», è «Dio», e quindi «Vita», «Luce»,
Principio per il quale «tutto è stato fatto»? (Gv 1, 1 ss). In qual
senso dice che “la Rivelazione è sempre un’astrazione,
un’idea” (ivi), se essa equivale all’illuminazione dell’intelligenza
che determina la gioiosa attrazione della volontà?
Illuminazione che — a livello della grazia — dobbiamo al Verbo
ed è principio dell'amore, come precisamente avviene in Dio,
nel cui seno il Padre emana lo Spirito per il Figlio1. Noi alludiamo
all'illuminazione intesa come effetto della “missione invisibile”
del Verbo, dal quale non può non prorompere l'impeto
dell'amore2.
Appunto l'illuminazione che fonda la vera «teologia cattolica»
insegnata da Agostino e Anselmo, Bernardo e Alberto Magno,
Bonaventura e Tommaso... «Theologia mentis et cordis» che si
serve del trattato solo per aprirsi alla contemplazione della
Verità-in-Sé, non certo per bearsi delle strutture logiche di un
pensiero arido e astratto...
Carmen, della teologia, conosce soltanto le degenerazioni e si
strania dall'intera tradizione cattolica quando se la prende
contro i «trattati» solo perché «complesso di verità” (p. 264),
come se Cristo — Verità per essenza — non avesse insegnato
delle verità; come se i Padri della Chiesa, i Concili, i Pontefici
non avessero proposto, spiegato e difeso quelle medesime
verità.... Ma per Carmen la “Parola di Dio” è «avvenimento”,
“azione”.... D'accordo, perché essa è attiva, creante...; ma non
può non essere «intelligibile», non esprimersi in formule»:
appunto quelle «dogmatiche» del Magistero, per le quali
possiamo distinguere il vero dal falso...
Se poi essa intende svuotare la «Parola di Dio» d'ogni contenuto
di verità, evidentemente dimostra di seguire il solco di
Lutero in quel suo pessimismo irrazionalistico che gli faceva
insultare la ragione come «il più feroce nemico di Dio”, «la
prostituta del diavolo», ecc. Non è possibile pensare diversamente
meditando certi suoi attacchi contro il «sapere»
(cf. pp. 87, 266, 291, 324, 325, 326, 329, ecc.)3.
* * *
Tornando al nostro argomento, sembra che Kiko decida di
parlare più apertamente:
“La cosa importante - egli proclama - non sta nella presenza di
Gesù Cristo …” (p. 325).
“Se a S. Pietro fosse stato chiesto se Gesù Cristo sia presente
nell'Eucaristia, si sarebbe meravigliato, perché per lui non si
pone il problema...” (p. 329). Certamente l'Apostolo deve
averlo confidato a Kiko, perché questi potesse esprimersi con
tanta sicurezza...
Dunque, le parole della consacrazione non producono il
prodigio della transustanziazione?... Sotto le specie del pane e
del vino la personale presenza del Cristo quale Verbo
Incarnato sarebbe l'invenzione di una fede malintesa, derivata
da una dottrina aberrante dall'istituzione dell'Eucaristia,
dalla Tradizione apostolica?... Così risulterebbe stando al
«catechismo” di Kiko.
In realtà, secondo lui, «in un certo momento (...) fu necessario
insistere contra i protestanti sulla presenza reale. Ma una volta
che questa non è più necessario [ma non si dice perché] non
bisogna insistervi più. Perché quel momento storico è passato”
(p. 334). Dunque, a proposito di «presenza eucaristica”, non è
più necessario distinguere “protestanti” da «non protestanti”. I
neocatecumenali possono dire con Kiko: «Siamo più vicini a
molti protestanti che ad alcuni della Chiesa che ci vogliono
picchiare e uccidere...” (p. 349; cf. 162).
A questo punto egli si comporta da maldestro polemista:
prende le difese del Vaticano II, come se questo gli desse ragione;
e insieme si scaglia contro i nemici del Concilio, come
se si trattasse di nemici anche suoi... Non riconosce che, al
contrario, suoi nemici sono proprio gli amici del Vaticano II
quale realmente si esprime in tutti i suoi documenti: «Oggi lo
scisma viene da coloro che non accettano il Concilio e
dicono: “Ma quale Concilio? Quello di Trento! Quello sì è un
Concilio!”. E credono che il Vaticano II non sono che cretinate
[sic] che affondano la Chiesa, e dall'altra parte quelli che
seguono il Papa ed il Concilio che ha detto: “Rinnovamento per
la Chiesa”, con tutto quello che ciò significa...” (p. 349).
C'è da restare sconcertati!
Kiko, che non tollera il Concilio di Trento (come Lutero), non è
sincero quando si vanta di seguire il Vaticano II ed il Papa... Io
l'ho dimostrato e, quanto al dogma eucaristico
(transustanziazione, Sacrificio, presenza reale), basterebbe aggiungere
quel che Giovanni Paolo II, quindici anni dopo
Concilio, ha saputo esporre sul mistero e il culto della SS.
Eucaristia” (Dominicae Cenae, 24 febbr. 1980).
In conclusione: Kiko non crede nella presenza reale secondo la
dottrina di Trento, mai ritrattata e assolutamente
in0tramontabile (D-S 1641, 1653). Tanto vero che la caduta dei
frammenti del pane consacrato, per lui, non solleva alcun
problema: «non è questione di briciole o cose di questo tipo...”
(p. 329), proprio come se le «briciole” o «frammenti” non
contenessero tutto il Cristo, secondo l'unanime Tradizione
cattolica e le ripetute e solenni dichiarazioni del Magistero (cf.
Conc. di Firenze, D-S 1321; Conc. di Trento, ivi, 1641, 1653)4.
Precisamente a questa mentalità ereticale, diffusa anche dal
Movimento Neocatecumenale, si devono gli «abusi” che
hanno finito col provocare la legalizzazione della “Comunione
sulla mano”, concessa a malincuore dalla S. Sede e richiesta
dalle Conferenze Episcopali. Ne è seguita la tristissima storia
d'innumerevoli profanazioni commesse ovunque, comprese le
basiliche romane...; ne è derivato un netto abbassamento di
tono nel culto eucaristico, nella vita spirituale del Clero e dei
fedeli...
1”Nihil enim potest voluntate amari, nisi sit in intellectu
conceptum (…); de ratione amoris est quod non procedat nisi a
conceptione intellectus...» (S. TOMMASO, Summa th., I, q. 27, a. 3, 3um).
«Necesse est autem quod amor a verbo procedat; non enim aliquid amamus,
nisi secundum quod conceptione mentis apprehendimus. Unde et secundum
hoc manifestum est quod Spiritus Sanctus procedit a Filio” (S. TOMMASO,
Summa th., 1, q. 36, a. 2, c.).
2 «Filius autem est Verbum non qualecumque, sed spirans Amorem (...). Non igitur
secundum quamlibet perfectionem intellectus mittitur Filius; sed secundum
talem instructionem intellectus, qua prorumpat in affectum amoris…” (S.
TOMMASO, Summa th., 1, q. 43, a. 5, 2um. Cf. ivi, 3um).
3 Eppure GIOVANNI PAOLO II, proprio rivolgendosi ai
Neocatecumenali, aveva richiamato “l'esigenza di un costante e serio lavoro
di approfondimento personale e comunitario della Parola di Dio e
dell'insegnamento del Magistero della Chiesa anche mediante la
partecipazione A SERI CORSI BIBBLICI E TEOLOGICI. Tale impegno di studio e
di riflessione si manifesta quanto mai necessario per chi, dovendo svolgere il
compito di catechista, ha il dovere di alimentare i propri fratelli con un solido
cibo spirituale...” (Disc. del 10 febbr. 1983; cf. L'Osserv. Rom., 11
febbr. 1983).
§ 3 – Contro il culto eucaristico
Negata la presenza reale, cade automaticamente anche il
culto eucaristico quale da secoli è stato sempre concepito,
difeso e incoraggiato dalla Chiesa Cattolica, a cui Kiko - anche
se non lo dice, per non compromettersi — è estraneo ed ostile.
«Da Trento in poi - egli lamenta, a dispetto di tutta la storia del
culto in parola - si celebrerà la Messa per consacrare ed avere
presente Gesù Cristo e metterlo nel tabernacolo” (p. 329).
Egli non ha mai capito che conservare l'Eucaristia significa
consentire ai fedeli di continuare a celebrare il Sacrificio
nell'amorosa contemplazione del Dio Crocifisso, presente cioè
nell'amorosa contemplazione del Dio Crocifisso, presente sotto
le spoglie della Vittima immolata... «Abbiamo trasformato
l'Eucaristia — incalza il nostro maestro — nel divino Prigioniero del
tabernacolo...» (p. 330).
Segue la blasfema tiritela neocatecumenale:
− «Cominciano le grandi esposizioni del Santissimo (prima mai
esistite)». «Il pane e il vino non sono fatti per essere esposti, perché
vanno a male. II pane e il vino sono fatti per essere mangiati e
bevuti. Io sempre dico ai Sacramentini che hanno costruito un
tabernacolo immenso: se Gesù Cristo avesse voluto l'Eucaristia
per stare lì, si sarebbe fatto presente in una pietra che non va a
male» (p. 329). — Grossolana e imperdonabile l'incomprensione
del d o n o infinito di una p r e s e n z a, fonte d'ineffabile
conforto per degli esuli infelici, anche se condizionata ad
elementi corruttibili (pane e vino), che possono sempre
rinnovarsi ad ogni celebrazione del Sacrificio Eucaristico...
− «In questa epoca comincia il Corpus Christi, le esposizioni
solennissime del Santissimo, le processioni col Santissimo, le Messe
sempre più private, le visite al Santissimo e tutte le devozioni
eucaristiche...» (p. 330).
− «Come una cosa separata dalla celebrazione [è falso!]
cominciano le famose devozioni eucaristiche: l'adorazione, le
genuflessioni durante la Messa ad ogni momento, l'elevazione perché
tutti adorino. Nel Medioevo all'elevazione si suonava la campana e
quelli che erano in campagna adoravano il Santissimo...” (p. 331)5.
Tutte pratiche che egli ricorda con malcelata commiserazione,
come se centinaia di grandi Santi, che ne furono promotori
zelantissimi, fossero stati degli sprovveduti...
— «Nel secolo XVII con l'industrializzazione [sic!?] ormai non c'e più
festa e la gente, che è molto religiosa, partecipa a modo suo con
ore sante, Via crucis, ecc.» (p. 331).
Ora, con irritante disinvoltura Kiko torna ad esaltare “Il
rinnovamento del Concilio Vaticano che porterà la Chiesa ad
una gloria indescrivibile e riempirà di stupore e ammirazione gli
Orientali e i Protestanti. Tutti insieme ci siederemo sulla pietra
angolare, sulla roccia dove non esistono divisioni. II Concilio è
ecumenico» (p. 333).
Si ha l'impressione che la sua enfasi sconfini nel delirio a cui può
abbandonarsi solo chi - come lui ossessionato dalle sue idee,
non si è curato neppure di leggere i testi del Concilio,
celebrandone un altro [ben diverso!] che - nella sua eventuale
catastrofica «ecumenicità”, — annullerebbe tutti i contrasti che
dividono le chiese cristiane...
Kiko pensa che la loro unità possa fondarsi fuori e contro la
verità oggettiva, assoluta...; la quale non si darebbe dal momento
che - secondo Carmen - la «Parola di Dio» si ridurrebbe
(storicisticamente) ad un «Avvenimento», per cui non
esprimerebbe delle verità definibili ed eterne.
Eppure, i nostri neocatecumenali sanno bene che:
a. il Vaticano II ha dichiarato che «LA CHIESA CATTOLICA IN
POSSESSO DI TUTTA LA VERITÀ RIVELATA DA DI0...» (UR 4), per cui non
deve apprenderla da nessuno, specialmente quanto ai dogmi
fondamentali, come quello eucaristico. Essa ha condannato
«l'irenismo” (ivi, 11).
b. Il Concilio professa ancora la sua fede nella vivificante
presenza di Cristo «NEL SACRIFICIO DELLA MESSA», “NELLA PERSONA
DEL MINISTRO” e specialmente “S O T T O L E S P E C I E E U C A R
I S T I C H E...» (SC 7).
c. Esso non ha cessato d'insegnare che «dalla liturgia (...) e
particolarmente dalla Eucaristia deriva in noi come da
sorgente la grazia, e si ottiene con la massima efficacia quella
santificazione degli uomini e glorificazione di Dio in Cristo, verso
la quale convergono, come a loro fine, tutte le altre attività
della Chiesa» (ivi, 10).
d. II Concilio dichiara che «la vita spirituale (...) non si esaurisce
nella partecipazione alla sola Liturgia...”; e che si dà una vita
interiore eminentemente personale e privata, contro la quale
Kiko è irriducibile (ivi, 12). E, in generale, esso favorisce «i pii
esercizi del popolo cristiano...”, a cui riconosce anche
«speciale dignità.... (ivi, 13).
Il Vaticano II non ha mai soppresso l'adorazione eucaristica
raccomandatissima da Pio XII, compiaciuto, al riguardo, delle
varie forme introdotte nella Chiesa «ogni giorno certamente più
belle e salutari, come, per esempio, devote ed anche
quotidiane visite ai divini tabernacoli; benedizioni col Santissimo
Sacramento; solenni processioni per paesi e città, specialmente
in occasione dei Congressi eucaristici, e adorazione
dell'augusto Sacramento pubblicamente esposto...” (Mediator
Dei, 107-110). Tutto ciò, se dispiace a Kiko, contribuisce in modo
mirabile alla fede e alla vita soprannaturale della Chiesa
militante.... (ivi, 110).
Non si rivela meno sprovveduto e irriverente quando, del tutto
a sproposito, parla anche del S. Cuore: «Attenti con certi
concetti di Dio buono, che è tutto misericordia... Perché la vita
è molto più seria. Venite con me, voi che avete certi concetti di
Dio tipo Sacro Cuore, con la manina così e la faccia ritoccata,
tutto zucchero e miele, tutto soavino e tenerino...” (p. 115. Cf. p.
139). A lui, teologastro, è sfuggito che quel Cuore è ferito,
trafitto da una corona di spine, dominato dalla croce. Esso
perciò chiede riparazione, sacrificio, partecipazione a tutte le
miserie spirituali e materiali del prossimo e per questo è simbolo
di quell'amore divino ed umano che riassume l'opera
redentrice del Verbo Incarnato, quale “religionis summa”, (Pio
XI, Miserentissimus Redemptor, in Acta Apostolicae Sedis 1928,
p. 167), “absolutissima (...) professio christianae (Pio XII, Haurietis
aquas, in AAS 1956, p. 344).
e. Kiko non crede che la liturgia è celebrata principalmente da
Cristo, Sommo sacerdote, da colui che in virtù dell’ordine sacro
opera nella persona di Cristo, rappresentando - in lui - tutta la
Chiesa ed anzi l'umanità intera... Non ha capito che la Messa,
anche se non solenne, non è mai privata, ma pubblica,
eminentemente ed essenzialmente comunitaria anche quando
il sacerdote celebrante è s o l o. Per questo il Concilio
«raccomanda caldamente la celebrazione quotidiana, LA
QUALE È SEMPRE UN ATTO DI CRISTO E DELLA SUA CHIESA, anche quando
non è possibile che vi assistano i fedeli. (PO 13. Cf. SC, 26-27;
PAOLO VI, Mysterium fidei, AAS 57 (1965), pp. 761-2).
Ma tutto ciò contro quel che Kiko vorrebbe far credere,
inneggiando al rinnovamento liturgico promosso dal Concilio
(p. 249) - non si armonizza con la nuova teologia
neocatecumenale: afferma Kiko in alcun modo un rito
individuale (…). Perché il sacramento non è solo il pane e il
vino, ma anche l’assemblea: la Chiesa intera che proclama
l'eucaristia. Non ci può essere una eucaristia senza l'assemblea
che la proclama...”. Non c’è eucaristia senza assemblea. È
un'assemblea intera quella che celebra la festa e l'eucaristia;
perché l'Eucaristia è l'esultazione dell'assemblea umana in
comunione...”. È da questa assemblea che sgorga
l’eucaristia..” (p. 317).
Sembra incredibile, se non fosse scritto. Kiko ha avuto l'abilità di
convogliare nel suo «catechismo” le peggiori correnti ereticali.
Di esso possono compiacersi soltanto i protestanti, maestri dei
«teologi olandesi”, autori del famigerato Catechismo, con gli
anonimi ispiratori dell'assurda nozione della Messa, apparsa
nella prima edizione del Messale (cf. Institutio..., c. II, n. 7), dove
appunto «l'Assemblea» è e fa tutto: il sacerdote è «presidente”,
non «ministro di Cristo”; il «sacrificio eucaristico” è solo una
«memoria» di quello della Croce; pane e vino restano gli
elementi della comune mensa umana, per cui non si fa alcun
cenno alla «transustanziazione”.
Ma forse molti neocatecumenali ignorano tutto: Kiko, col «gran
consiglio» dei suoi «catechisti”, può aver abusato della loro
buona fede.
4 Le espressioni di Kiko spiegano bene la maniera indegna di
trattare l'Eucaristia
come si costuma nella liturgia neocatecumenale. In una chiesa di Roma, un
laico, mio amico, inorridito della disinvoltura con la quale, al termine del rito,
si lasciavano cadere (e quindi calpestare) le «briciole” del pane consacrato
e consumato, sentì esclamare da un «presbitero”: «Stai ancora a badare a
queste cose?!..”. Ora, sempre ai membri delle Comunità Neocatecumenali,
nel discorso sopra citato, il Papa, fin dall'83, aveva raccomandato: «Celebrate
l'Eucaristia è, soprattutto, la Pasqua, con vera pietà, CON GRANDE DIGNITÀ, CON
AMORE PER I RITI LITURGICI DELLA CHIESA, CON ESATTA OSSERVANZA DELLE NORME
STABILITE DALLA COMPETENTE AUTORITÀ, CON VOLONTÀ DI COMUNIONE CON TUTTI I
FRATELLI...». Purtroppo, i seguaci di Kiko sono rimasti sordi ad un richiamo così
grave.
5 Kiko forse ignora che il Papa (da lui tante volte avvicinato,
celebrato, abbracciato) la pensa diversamente. Il 29 sett. 1979, al Phoenix Park
di Dublino, esclamò: L'Eucaristia, nella Messa e fuori della Messa, è il Corpo
e il Sangue di Gesù Cristo, e merita quindi l'adorazione che si tributa al Dio
vivente, e a Lui solo. Così, ogni atto di riverenza, ogni genuflessione che fate
davanti al Santissimo Sacramento è importante perché è un atto di fede in
Cristo, un alto di amore per Cristo. E ogni segno di croce, ogni gesto di rispetto
fatto ogni volta che passate davanti ad una chiesa è pure un atto di
fede...”.
XII
PER TUTTI, IL VERDETTO DI DIO
È SOLO IL PERDONO E LA
MISERICORDIA
SECONDO LA FEDE CATTOLICA, DOBBIAMO CREDERE CHE «LE ANIME
DI TUTTI COLORO CHE MUOIONO NELLA GRAZIA DI CRISTO, SIA
CHE DEBBANO ANCORA ESSER PURIFICATE NEL PURGATORIO, SIA CHE
DAL MOMENTO IN CUI LASCIANO IL PROPRIO CORPO, SIANO
ACCOLTE DA GESÙ IN PARADISO”; MENTRE LE ALTRE CHE IN PUNTO
DI MORTE SI OSTINANO NEL RIFIUTO DI DIO, RESTANO PER SEMPRE
PRIVE DELLA VITA ETERNA. PRECISAMENTE IL CONTRARIO DI QUANTO
SI DEDUCE DALLE CONVINZIONI DI KIKO (Cf. PAOLO VI, Prof. di fede).
Secondo lui, “Il cristianesimo dice che tutti siamo già giudicati, e
che il giudizio sopra tutti i peccati è stato fatto nella Croce di Gesù
Cristo, che ci ha tutti perdonati». Insomma, “il verdetto di Dio» per tutti
è solo “il perdono e la misericordia... » (p. 66).
Ora, se realmente Cristo ha fatto tutto e la misericordia di Dio
perdona tutti, segue che:
a - non c'è alcun bisogno di purificazione, né in questa né
nell'altra vita, per cui il p u r g a t o r i o non ha senso, essendo
un supplemento di sofferenza umana che non fa onore (!)
all'opera compiuta dalla morte di Cristo, che tutto ha in sé
consumato, distrutto: peccato e reliquie del peccato...;
b - se tutti siamo stati già giudicati in base ad una sentenza di
assoluzione universale, non c'e nessuno che possa temere
l’inferno per la ragione poc’anzi indicata …
c - quanto al paradiso il discorso si complica, perché esso
dovrebbe essere possibile senza alcun merito personale, una
volta che: α) la volontà non è libera, non potendo fare alcun
bene (pp. 130, 135); e β) che ciascuno resta assorbito e come
perduto nel Cristo risorto: “Se io sono Cristo stesso e Cristo è
risuscitato, io sono risuscitato... (p. 66). «... In lui puoi essere ricreato
veramente ricuperando l'immagine di Dio, divenendo Dio stesso,
figlio di Dio, avere la natura di Dio.... (p. 143). E, allora, resta da
chiedersi: come posso godermi una vita eterna che non è
“mia”, perché non scelta da me, non meritata da me: il bene è
“mio” solo a condizione che io l'abbia voluto...
Penso che Kiko non abbia afferrato tutta la portata di
espressioni del genere: esse sanno di panteismo, pancristismo,
quietismo... (Cf. Pio XII, Mystici Corporis, nn. 85s).
Infine, lascia penosamente perplessi il fatto che egli non
parla mai — almeno esplicitamente — della vita soprannaturale,
coltivata con l'esercizio delle virtù teologali, agevolata
potentemente dai doni dello Spirito Santo e confortata dalla
gioia dell'intimità con Dio vivente nella preghiera che
raggiunge la contemplazione infusa... Sintomatico del resto il
suo silenzio sul dogma della beatitudine eterna, consistente nella
partecipazione alla vita trinitaria, che in definitiva spiega tutto.
EPILOGO
Ripensando a quanto — molto faticosamente mi sembra di
aver capito del testo di Kiko, ho l'impressione di trovarmi
davanti ad un Cristianesimo radicalmente diverso da quello
finora proposto dalla Chiesa Cattolica. Sembra che si sia
sforzato di inventarne uno tutto suo, derivato da una lettura
esclusivamente personale della Bibbia e da una cultura
teologica priva di basi, penosamente confusa, sconnessa,
quale poteva risultare da un “libero esame” dei Libri Sacri.
Non è esatto parlare di «sintesi», della quale la dottrina di Kiko
non ha l'unità che dovrebbe caratterizzarla e che l'avrebbe
resa meno incomprensibile.
Capisco che gli Orientamenti si riducono a discorsi piuttosto
familiari, a cui si perdona - nella vivacità dello stile e nella foga
dei sentimenti - una scarsa proprietà di linguaggio e piccole,
frequenti incoerenze... Ma l'estrema gravità di certi temi e
l'insistenza con la quale Kiko vi torna sopra lasciano intravedere
in modo inequivocabile tutto un tessuto d'idee costantemente
discordi dalla dottrina tradizionale, anche se soggiace ad un
mare di parole, citazioni bibliche, battute di spirito e digressioni
inopportune, che rendono la lettura delle 373 pagine
notevolmente laboriosa e molesta.
Ciò, spesso, ha fatto spuntare il dubbio se gli Orientamenti di
Kiko non meritino di essere presi sul serio; dubbio però
facilmente superato dalla riflessione che essi trattano
argomenti fondamentali della fede cristiana...; costituiscono il
testo di base nella formazione dei Catechisti, che formano lo
“stato maggiore» dell'autore...; ispirano e dirigono, sia pure
remotamente, l'azione del M.N. svolta in tutto il mondo...; non
hanno subìto ritocchi od emendamenti perché ritenuti — come
ho sentito ripetere — quasi ispirati, per cui godono del massimo
rispetto da parte degli affiliati.
Ultima ragione: gli Orientamenti hanno avuto la conferma da
quanto mi è stato riferito da un pubblico che tutto osserva, ricorda
e poi racconta.
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